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«Il messaggio di Gioacchino da Fiore (per il Pd)»

di Emiliano Morrone

Pubblicato il: 11/04/2018 – 15:17
«Il messaggio di Gioacchino da Fiore (per il Pd)»

Mi ha colpito un comunicato stampa della Regione Calabria sulla partecipazione al XXXI Salone Internazionale del Libro di Torino con i “suoi” «Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Telesio e Campanella, (…) le cui opere contribuiscono a fornire risposte utili a sciogliere i nodi posti dal tema del Salone», cioè «interrogativi sul presente e il futuro del nostro mondo» e «sulla precarietà che contraddistingue la società attuale», «alla ricerca delle positività e di soluzioni possibili».
Mi verrebbe da chiedere al governatore Mario Oliverio – e ai suoi consulenti culturali – in che modo le opere di Gioacchino da Fiore possano concorrere a fornire risposte utili sul tema del Salone del 2018. E vorrei capire, soprattutto dai consulenti di Oliverio, come l’Abate calabrese si ricolleghi alla precarietà, in vero fragilità ontologica nel – e del – tempo corrente, intesa con fretta e semplificazione nel riferito comunicato della “Cittadella”.
Le due domande scavalcano il recinto della teoria e si collegano, nel mio discorso, al momento storico del Pd calabrese, che vuol ripartire ma ancora non sa bene da dove né con quale prospettiva e linfa.
Nelle settimane passate discussi in tv con Ernesto Magorno sulle ragioni della sconfitta elettorale del Pd, in soldoni da ricondurre all’abbandono spinto della propria tradizione sociale, per esempio da Gramsci a La Pira.
Il Pd è diventato – anche in Calabria – il partito di riferimento del sistema del capitalismo monetario, finanziario e delle multinazionali. Lo si è visto con la vicenda della riforma costituzionale volta ad accentrare poteri e a rimuovere gli ultimi scampoli di rappresentatività democratica, Cnel compreso. Lo si è colto con la rivalutazione d’imperio delle quote di Banca d’Italia; con l’approvazione muscolare del «Jobs Act», ispirato (d)alle tesi blindate dell’economista Jean Tirole; con l’arrendevolezza della «Buona scuola» a un insegnamento funzionale all’offerta smisurata di prodotti (a breve termine) del grande mercato tecnologico; con la scandalosa forzatura del «decreto vaccini», coperta da una diatriba ad arte tra vaccinisti ed avversari.
Qui, a sud del Sud, nella terra di Cassiodoro, Gioacchino, Telesio, Campanella (e Vattimo), che il Pd sia remissivo ai padroni dell’«Impero», di negriana memoria, è confermato dal perpetuo attendismo del governatore Oliverio, intanto in materia sanitaria, protetto dal suo «guscio vuoto» di sostenitori interessati, dirigenti, funzionari e passacarte solidali (a scadenza). In sintesi: Oliverio ha subito, come molti altri, la gestione aziendalistico-ragionieristica della sanità regionale, soggetta al vincolo costituzionale del pareggio di bilancio e ai tagli progressivi alla spesa pubblica derivanti dal «Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria». Che cosa poteva fare il governatore, posto che nello specifico la minestra venne bell’e cotta nel lontano 2012? Di certo poteva tentare una mediazione politica col Pd di governo (centrale) e risparmiarsi l’annuncio a effetto d’incatenarsi sotto Palazzo Chigi, come obiettato(gli) da più parti. E poteva seguire una strada tutta politica, che forse gli avrebbe permesso di ricevere la delega quale commissario per l’attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario regionale, tenuto conto che aveva un vice, Antonio Viscomi, molto capace di negoziare con pacatezza ed efficacia.
Oliverio, non ha (dimostrato di possedere) una visione sullo sviluppo della Calabria, sulla tutela dei diritti, dei disoccupati, dei deboli. Si dirà che, inevitabilmente, l’amministrazione regionale risente delle fasi del ciclo economico (e politico) nazionale e internazionale, ma il presidente della Regione non ha voluto saperne di alcune battaglie fondamentali. Mi riferisco a quella, intrapresa dalla deputata 5stelle Dalila Nesci, della ripartizione del Fondo sanitario sulla base dei dati di morbilità e co-morbilità relativi alla Calabria e all’intero Mezzogiorno. E alludo a un’altra, meno conosciuta, di Paolo De Marco, accademico italo-canadese che, con sforzi fissi e senza interessi di bottega, dialogando con l’Assessorato regionale per il Welfare ha provato a creare sbocchi di lavoro per centinaia di “paria” dell’interno montuoso, argomentando contro le misure temporanee che hanno alterato le statistiche dell’occupazione ed esteso la subalternità alla politica.
Nel 2004 – e Oliverio dovrebbe ricordarlo – Gianni Vattimo, il padre del «pensiero debole», intervenne al congresso del Centro internazionale di studi gioachimiti. Parlò della progressiva emancipazione collettiva dalla violenza del potere, che legò alla profezia, di Gioacchino da Fiore, dell’avvento dello Spirito e della possibilità del compimento della giustizia nella storia. Quella lezione del filosofo torinese, originario di Cetraro (Cs), fu dimenticata alla svelta. Seguì, anni dopo, la “bufala” della citazione dell’Abate calabrese da parte di Barack Obama, alla quale, presumo, partecipò in buona fede l’allora deputato del Pd Franco Laratta. Nel 2004 Vattimo aveva già rotto con i Ds, di cui era stato parlamentare europeo. L’attento giornalista Aldo Varano lesse la successiva candidatura del filosofo quale sindaco di San Giovanni in Fiore (Cs) come una specie di vendetta personale nei confronti di Massimo D’Alema; anche perché Vattimo, come rammenta Aldo Cazzullo del “Corriere della Sera”, è difficile da interpretare: si diverte con motti di spirito, provocazioni e una compiaciuta autoironia.
Come deve agire il Pd calabrese, se vuole uscire dal pantano della conservazione dell’ordine interno? Detto da me, che, terzo, non nascondo simpatie per il movimentismo in chiave meridionalistica, forse assume un valore di verità meno relativo delle analisi (“esterofile”) dell’amico Luigi Guglielmelli. Il Pd parta dal messaggio autentico di Gioacchino da Fiore, che Vattimo spiegò mirabilmente nella sua spiazzante attualità. Il partito guardi allora agli ultimi, che sono la maggioranza. Ne ascolti la voce, anche se rotta o scomposta. Comprenda che non si può continuare con la recita a soggetto, come per gli ospedali di Trebisacce (Cs) e Praia a Mare (Cs), aperti nell’irrealtà. Costruisca un progetto politico dal basso e per le comunità, rinunciando a servire i pochi forti. Si faccia trasformare dal grido di dolore che proviene dal corpo sociale maggioritario, sempre più omogeneo per debiti, privazioni e pesi economici. Trovi, il Pd, il coraggio di lottare contro la criminalità con la passione di Peppino Impastato, che sapeva quanto la mafia provocasse diseguaglianze terribili. Il Pd rinunci, insomma, all’idea del potere come privilegio, come strumento per l’utile delle élites. Perciò si apra al confronto, sui programmi, con le espressioni dell’attivismo civile, purtroppo ancora ignorate.

*giornalista

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