È stata un’autobomba e non un incidente a provocare la morte di Matteo Vinci, 42 anni di Limbadi e ferire gravemente il padre, ora in una dura battaglia tra la vita e la morte. Altro sangue a testimoniare il clima di forte tensione, di difficoltà e delicatezza che interessa la provincia di Vibo Valentia, dove si continua ad uccidere posizionando un ordigno sotto un automobile. Ci aspettiamo certo, una risposta chiara e forte da parte dello Stato che deve star vicino a chi come Matteo, decide di affiancarlo nella lotta contro i soprusi della ‘ndrangheta, contro le malefatte, contro l’orrore e la prepotenza bruta che impera ancora sul territorio. C’è chi denuncia, chi decide di non piegarsi ma anzi di tenere la schiena dritta e di ripudiare la deformante giuridica emanata dalla ‘ndrangheta, quella legge dell’omertà, del silenzio cupo e dell’obbedienza che le ‘ndrine vorrebbero ergere a costituzione e che per troppo tempo, ha trovato radici solide e penetranti. Ma ci chiediamo, un attentato che ricalca appieno, il modus operandi della ‘ndrangheta di matrice terroristica, in pieno giorno, nella roccaforte dei Mancuso e secondo i primi passi delle indagini, per un terreno di confine, perché? Qual è il vero prezzo che quel mondo fatto di silenzi e sudditanza, dava a quegli ettari di terreno?
Un messaggio di morte da chi vuole far mostra, in modo eclatante, della propria presenza, presenza che forse, inizia ad essere disconosciuta, potere che forse, inizia ad essere bestemmiato e vacilla. Nervosi e febbrili vedono il loro campo restringersi grazie al lavoro immane che, in questi mesi soprattutto, le Forze dell’ordine stanno svolgendo, ma pensiamo che stia iniziando a sollevarsi rispetto al passato, anche una reazione da parte dei cittadini e delle cittadine, di chi non rimane inerme di fronte alla violenza nefanda ma vuole liberare sé stesso e purificare i luoghi dallo stigma di terra di ‘ndrangheta, con dignità e caparbietà, iniziando ad assaporare il piacere dell’onestà. Tutto questo non è bastato però ad evitare l’atto sanguinoso che ha lasciato tutti sgomenti, allora siamo inevitabilmente chiamati a fare un atto di mea culpa e ad assumerci la nostra parte di responsabilità perché se Matteo ha perso la vita, forse, non ha avuto l’appoggio e il sostegno di cui aveva bisogno, forse ancora in terra di Calabria, sono pochi e poche i Matteo che per amore, non cedono.
Noi la vediamo una piccola luce di speranza ma non basta a riscrivere la nostra storia, siamo chiamati a far sì che quella piccola luce, diventi un sole nuovo dal bagliore accecante e sancisca il foedus tra Istituzioni e popolo, di impegno comune per un domani senza più sangue.
Il rumore dell’autobomba deve arrivare nelle nostre case, rompere i nostri vetri, entrare prepotentemente nelle nostre teste e nelle nostre coscienze per alimentare l’indignazione, perché la resistenza civile deve incrementare la sua forza anche e soprattutto per Matteo e la sua famiglia, che ci danno un grande esempio di umiltà e di coraggio, di rivendicazione e difesa dei propri diritti. Al simbolismo dissacrante della ‘ndrangheta ha risposto con umanità disarmante Rosaria, la mamma di Matteo, dicendo di non aver paura. Adesso tocca a noi, questo è il momento di metterci la faccia e di far vedere che comunità siamo ma soprattutto che comunità vogliamo essere.
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