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Dalla ‘ndrangheta d’élite alla violenza per la “terra”

Emergono nuovi dettagli sull’autobomba che ha ucciso Matteo Vinci e ferito gravemente il padre Francesco. L’ordigno azionato a distanza e il giallo delle impronte vicino all’auto delle vittime. Al …

Pubblicato il: 12/04/2018 – 12:18
Dalla ‘ndrangheta d’élite alla violenza per la “terra”

VIBO VALENTIA Quelle impronte nei pressi della Ford Fiesta, che sarebbe saltata in aria qualche attimo dopo, probabilmente le avevano notate anche le vittime. L’indiscrezione – un dettaglio importante, se confermato – trapela da fonti investigative e comproverebbe che l’ordigno che ha ucciso Matteo Vinci (foto) e ferito gravemente il padre Francesco è stato piazzato sotto l’auto mentre i due lavoravano la loro “terra” nelle campagne di Limbadi. Stando a quanto emerge dalle prime ricostruzioni investigative si è trattato di una bomba rudimentale, sì, ma certamente confezionata per fare male, piazzata sotto la Fiesta in corrispondenza del sedile del guidatore e azionata da qualcuno che era lì nei pressi con un telecomando a distanza: un piano omicida certamente studiato nel dettaglio che non ha lasciato scampo al 43enne ex informatore farmaceutico. Mentre il padre 73enne è ancora ricoverato al reparto “Grandi ustionati” di Palermo, la salma del figlio dovrà essere ancora sottoposta a diversi esami medico-legali che, assieme all’autopsia eseguita mercoledì mattina, potrebbero consegnare agli inquirenti altri dettagli importanti per risalire agli autori dell’attentato che ha portato Limbadi all’attenzione delle cronache nazionali. I funerali di Matteo Vinci potranno dunque tenersi solo tra qualche settimana, intanto per i carabinieri del Reparto operativo e del Nucleo investigativo di Vibo sono ore convulse per cercare di raccogliere più elementi “freschi” possibile riguardo a una storia drammatica i cui contorni sono tuttora parecchio oscuri.
LA FAMIGLIA L’attenzione, dopo la tragedia avvenuta nel primo pomeriggio di lunedì, si è inevitabilmente concentrata sui forti contrasti che negli anni i Vinci hanno avuto con una famiglia che possiede un terreno confinante al loro, i Di Grillo-Mancuso. Lui, Domenico, 71 anni, è stato arrestato per detenzione abusiva di un fucile nelle ore successive all’attentato ed è stato scarcerato e posto ai domiciliari mercoledì; lei, Rosaria, è sorella di Giuseppe, Francesco “Tabacco”, Pantaleone “l’Ingegnere” e Diego Mancuso, ovvero alcuni tra i più noti boss di quel casato mafioso considerato tra i più potenti d’Europa che a Limbadi e a Nicotera, nel Vibonese, ha il suo feudo. Mentre non sfugge agli inquirenti nemmeno la figura di Sabatino Di Grillo, figlio 43enne della coppia che, dopo essersi trasferito anni fa nel Milanese, a Cuggiono, è stato di recente condannato a 10 anni di carcere nel processo scaturito dall’operazione antimafia “Grillo parlante”, che ha portato (in altro troncone processuale) a una condanna a 13 anni anche per Domenico Zambetti, ex assessore regionale nella giunta Formigoni. Per la Dda milanese Sabatino Di Grillo sarebbe il più autorevole esponente in Lombardia del clan Mancuso, e in particolare di quell’ala – capeggiata dagli zii e definita «scissionista» in alcune inchieste giudiziarie – che per un certo periodo si sarebbe contrapposta alla cosca madre guidata da alcuni dei boss della cosiddetta “generazione degli 11” (i figli del capostipite Giuseppe, classe 1902) come Antonio, Luigi e il defunto Pantaleone “Vetrinetta”.
LA TERRA Che i Mancuso non siano un’entità mafiosa unitaria è ormai un dato acclarato per gli inquirenti: molti dei componenti apicali delle varie articolazioni della famiglia si muovono infatti in autonomia e, spesso, anche in contrapposizione tra loro. Appare quindi semplicistica la lettura che individua nella “cosca Mancuso” (intesa come unico clan di ‘ndrangheta) le possibili responsabilità dell’attentato di lunedì scorso, tanto più che è chiaro che attirare l’attenzione di forze dell’ordine, media e magistratura sarebbe per chi prospera lontano dai clamori un evidente autogol. Vale poi la pena ribadire che ad oggi l’arresto per armi di Domenico Di Grillo non ha nessun collegamento accertato con l’autobomba che ha ucciso Matteo Vinci.
Da una parte ci sono le dichiarazioni dei familiari della vittima e del loro legale, l’avvocato Giuseppe de Pace, che indicano come l’omicidio di Matteo sia arrivato al culmine di anni di soprusi e aggressioni (l’ultima si era registrata a ottobre del 2017) subiti dai vicini per accaparrarsi una parte contesa della loro “terra”; dall’altra i familiari dei Di Grillo-Mancuso che respingono con sdegno ogni insinuazione e affermano che ci sono cause civili in corso e “carte giudiziarie” secondo cui sarebbero stati i Vinci a sconfinare nei loro terreni. È insomma ancora presto per stabilire quanto possano essere fondate le posizioni dell’una o dell’altra famiglia e a farlo, ovviamente, dovranno essere investigatori e magistrati. Non deve sorprendere, però, se intorno alla “terra”, anche a pochi metri quadrati di “terra”, si creano contrapposizioni esasperate e violente che possono sfociare in tragedie come quella subita dalla famiglia Vinci. Perché se è vero che alcuni clan di ‘ndrangheta considerati di primo livello, come i Mancuso, nelle loro articolazioni interne hanno fatto da anni il salto di qualità e sono diventati, probabilmente grazie a collusioni e connivenze inconfessabili, delle holding economico-finanziarie senza coppola e lupara, è altrettanto vero che le radici rurali in molti singoli esponenti di queste cosche rimangono vive e forti. E in questo contesto, sul territorio madre, appropriarsi della “terra” con la violenza, “sistemare” definitivamente una situazione esasperata che si trascina da tempo dando una lezione mortale a chi non vuole piegarsi, è ancora considerata una soluzione praticabile.

Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it

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