Che quello degli lsu-lpu fosse un pasticciaccio che ha radici lontane era cosa nota. La sensazione che si fa sempre più strada, però, è che a questa ventennale storia di precariato di Stato si continuino ad aggiungere capitoli che aggravano ulteriormente il problema invece che risolverlo. I passaggi più recenti della vicenda sono noti: la stragrande maggioranza dei sindaci calabresi, su spinta della Regione, ha prorogato i contratti dei precari anche per il 2018, ma in realtà la “legge Madia” dice che i contratti si potevano rinnovare solo nel caso in cui gli enti avessero predisposto un piano di stabilizzazione che tenesse conto della sostenibilità finanziaria delle nuove assunzioni e della possibilità di superare eventuali blocchi del turnover per gli innesti in pianta organica. Stando agli annunci e agli impegni elettorali dovrebbe arrivare una legge regionale che conduca alla stabilizzazione. Intanto, comunque, il dipartimento Lavoro ha approvato la graduatoria (ne abbiamo scritto qui) che la legge 1/2014 individua come passaggio indispensabile per arrivare all’agognata stabilizzazione. Se mai si arriverà alla stabilizzazione, dunque, è da questa graduatoria che andranno pescati i nomi dei lavoratori da stabilizzare. Il problema, però, è che questo elenco è “aggiornato” ai primi mesi del 2014, quando i circa 5mila lsu-lpu calabresi comunicarono ufficialmente alla Regione i propri dati comprensivi di anni di anzianità e carichi familiari. Nel frattempo è evidente che le cose, essendo trascorsi quattro anni, siano cambiate: non sono pochi i precari fuoriusciti dal bacino o andati in pensione, così come tanti sono quelli le cui situazioni familiari sono mutate. Così ci si ritrova con una graduatoria in cui sono inseriti lavoratori che oggi non sono più lsu-lpu e i carichi familiari risultano per molti non corrispondenti alla realtà attuale. Dopo la pubblicazione degli elenchi, infatti, se ne sono accorti in molti segnalando le anomalie al Corriere della Calabria, ma c’è anche un ulteriore problema: la graduatoria, per quanto siamo riusciti apprendere, è un atto firmato dai dirigenti regionali e quindi formalizzato a tutti gli effetti, solo che pur essendo stata adottata lo scorso 14 marzo ancora non è stata pubblicata sul Burc e quindi non c’è un provvedimento pubblico a cui appellarsi per fare eventualmente ricorso o chiedere la revisione. E siccome non ci si fa mancare nulla, c’è anche un altro paradosso: a settembre del 2017 il dipartimento Lavoro fece partecipare i lavoratori a un censimento attraverso un modulo acquisito tramite la piattaforma Calabria Lavoro che, scrivevano all’epoca dalla Regione, «ci darà modo di poter monitorare e gestire le attività svolte dai lavoratori». Evidentemente, quindi, i dati contenuti nel censimento del 2017 risulterebbero più corrispondenti alla realtà rispetto a quelli del 2014, ma pare che questi nuovi dati non abbiano un valore ufficiale tale da poter essere utilizzati dalla burocrazia regionale per stilare la graduatoria. Non si capisce quindi a cosa sia servito il censimento di qualche mese fa. Fatto sta che il limbo della precarietà in cui vivono ormai da decenni migliaia di lavoratori calabresi, senza i cui servizi i Comuni rischiano di essere paralizzati, sembra sempre più aggravato dal peso dell’incertezza.
Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it
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