PALERMO «Ascolta lui … qua non gli ha detto che sta qua. Era in Calabria ed è tornato». Il dato non è recentissimo, ma è preciso. Arriva dalla viva voce dei due mafiosi partannesi Nicola Accardo e Antonino Triolo fermati oggi per ordine della Dda di Palermo. Nel marzo del 2016, i due vengono sorpresi a discutere del ruolo del boss Matteo Messina Denaro, dei suoi spostamenti, dei suoi incontri con i sodali, e dei pizzini da lui provenienti e a lui destinati. Ne leggono addirittura uno. Per questo – ritengono gli inquirenti – l’informazione è attendibile: la primula nera di Cosa Nostra si è nascosta in Calabria. Poi è probabile che sia stata costretta a tornare.
CAPO ASSENTE E FIGLIO INGRATO Gli arresti avevano aperto troppi varchi e provocato vuoti di potere e dissidi, l’assenza del capo iniziava a farsi sentire e persino i più stretti familiari iniziavano a lamentarne l’assenza. «La madre di Matteo … che lui non scrive si lamenta, lui deve scrivere .. vorrei vedere a te … inc. … non gli interessa niente di nessuno» commentano i due, estremamente vicini – hanno svelato l’indagine – al cuore dell’organizzazione che ha gestito la latitanza di Matteo Messina Denaro e ne ha tutelato la posizione e il ruolo sul territorio. Mentre lui – emerge – si nascondeva poco distante.
CONTATTI STORICI Un dato che probabilmente non stupisce gli investigatori. Nella storia delle mafie tradizionali, più volte la Calabria ha coperto e ospitato latitanti siciliani. Anche di massimo livello come – dicono i pentiti – Totò Riina, che più volte avrebbe anche attraversato lo Stretto per fare da compare d’anello ai mammasantissima calabresi. Diverse inchieste poi hanno documentato contatti e rapporti strutturati fra le élites di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, ma il dato – che in alcuni ambienti si tende ostinatamente a negare – è patrimonio comune anche per i semplici affiliati.
CALABRIA O CAMPANIA È LO STESSO Ne è la prova la conversazione captata dagli investigatori, durante la quale Filippo Dall’Aquila – elemento di rilievo della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara – in un momento di estrema criticità per il clan confessa le proprie preoccupazioni alla compagna. «Mi sa che me ne debbo andare vero. Ci sono problemi seri – le dice, intercettato – Mi sa tanto che è meglio che cambio aria. Ora sto vedendo un attimino di che si tratta (..) devo capire prima bene cosa succede, cosa bolle in pentola, perchè anche se me ne vado in Calabria o a Napoli, non cambia niente». Parole che dimostrano in maniera plastica come le mafie, grazie a rapporti e accordi fra i loro massimi vertici, non conoscano confini regionali.
«QUESTO VA A VIBO» Ma a dimostrare i rapporti strutturati fra le élites mafiose delle due regioni sono anche gli affari. Il dato emerge in una vecchia indagine, richiamata nel fermo eseguito oggi, ma rimane esemplificativo. Nel 2013, il gruppo capeggiato da Raffaele Urso, di cui Dell’Aquila faceva parte, stava lavorando alla realizzazione di una discarica nel comune di Campobello di Mazara. Per questo, erano stati avviati contatti con i clan di Catania e Palermo per concordare le tipologie di rifiuti da sversare e gestire. Il percolato, generato nelle discariche locali ormai sature, era stato invece destinato alle discariche calabresi. Un ordine dei palermitani, che con il loro uomo fanno sapere «bisogna fare comprendere che in Sicilia non ci sono imprese che possano smaltire … e quindi per forza il materiale deve essere scaricato a Vibo Valentia e le tariffe sono quelle che abbiamo discusso noi punto!». Un progetto poi sfumato, grazie ad un’operazione di polizia ed un sequestro. Ma che dimostra fra Calabria e Sicilia un asse c’era e c’è.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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