REGGIO CALABRIA Nel giorno in cui la Corte d’Assise di Palermo ha affermato che c’è stata una trattativa fra lo Stato e Cosa nostra negli anni delle stragi, a Reggio Calabria emergono altri tasselli di quel dialogo. Uno avvenuto proprio in quegli anni, quando i clan si sono nascosti dietro la sigla Falange armata per uccidere l’educatore Umberto Mormile. L’altro ancora precedente. Risale al periodo dei sequestri, quando le ‘ndrine calabresi terrorizzavano la grande borghesia del Nord con più o meno cruenti rapimenti. Una stagione breve e che improvvisamente si è conclusa. Forse grazie ad un patto.
A UN PASSO DAL CUORE DEI CLAN A svelarlo è il pentito Vittorio Foschini, elemento di spicco della ‘ndrangheta milanese e fra i primi collaboratori di giustizia. Braccio destro del “re della Comasina” Franco Coco Trovato, alle dirette dipendenze di Antonio Papalia, «il capo di tutta la ‘ndrangheta della Lombardia» e del fratello da cui prendeva ordini, Domenico, Foschini è stato per anni vicino ai vertici dei clan reggini. «Perché noi eravamo Reggio. E anche i petilini in quegli anni hanno chiesto di passare sotto la madonna della montagna per essere più protetti. Anche i Vrenna e i Grande Aracri – aggiunge – erano con noi».
TESTIMONE ASSISTITO Rapinatore divenuto killer spietato pur di essere affiliato perché – racconta – «nel locale di Lecco si battezzava solo dopo un omicidio», Foschini ha ormai scontato tutte le sue condanne. Non ha pendenze, ma continua a collaborare. Per questo è stato ascoltato come testimone assistito nel processo “‘Ndrangheta stragista”, scaturito dall’inchiesta che ha svelato la partecipazione della ‘ndrangheta alla strategia stragista di Cosa nostra.
Una parte – emerge dalle carte – di un piano ben più complesso e da realizzare in più fasi, inclusa quella oggi accertata con sentenza a Palermo, mirato a imporre un governo amico, che sostituisse i vecchi, ormai inaffidabili referenti politici.
LA TRATTATIVA SUI SEQUESTRI Ma quello – svela oggi in aula Foschini – non è stato il primo terreno di dialogo fra le mafie e parte delle istituzioni. Già in precedenza c’era stato un patto. Anzi due. «Totò D’Agostino è morto per non aver rispettato o aver violato un patto con i servizi», dice il pentito rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. O meglio, si corregge il collaboratore, i patti erano due. Uno, così riservato da non essere mai stato portato a conoscenza persino dei quadri alti dell’organizzazione. L’altro invece, «secondo quanto mi ha raccontato Antonio Papalia», dice Foschini, prevedeva il blocco dei sequestri di persona in cambio della fine delle operazioni di polizia in Aspromonte e la sostanziale impunità per i latitanti. D’Agostino – ha capito nel tempo il pentito – deve aver violato uno dei due patti. E lo ha pagato con la vita.
IL GOTHA DEI CLAN Elemento di spicco del gotha della ‘ndrangheta reggina, D’Agostino – hanno svelato in passato altri pentiti, come Cesare Polifroni – «in quel periodo frequentava i fratelli Giorgio e Paolo De Stefano, Saro Mammoliti e Antonio Nirta. Sempre nello stesso periodo Totò D’Agostino intratteneva rapporti con Gheddafi, tramite un avvocato di Catania di cui non so il nome, che veniva appositamente dalla Sicilia (..) Il motivo di questi contatti era la preparazione di un piano per attuare in Italia un colpo di stato o quanto meno la separazione in Calabria ed in Sicilia con l’appoggio di Gheddafi e della destra eversiva».
DUE OMICIDI, UN UNICO MISTERO Ma soprattutto in quel periodo, D’Agostino aveva rapporti – stretti e regolari – con un magistrato che già all’epoca rischiava di essere estremamente pericoloso per i clan, Vittorio Occorsio, ucciso solo qualche tempo prima di D’Agostino. All’epoca, forse anche grazie alle indicazioni di D’Agostino, indagava su quei tanti, troppi contatti fra ndrangheta, massoneria e eversione nera emersi in sede di indagine. Tracce su cui il magistrato – forse – sperava di avere lumi anche da D’Agostino, che più volte aveva incontrato. Entrambi sono morti nel giro di pochi mesi. E ad uccidere il boss – dice netto Foschini – sono stati i servizi.
IL PATTO Gli stessi uomini che poi – riferisce il collaboratore – hanno chiesto a Domenico Papalia di attribuirsi l’omicidio, in cambio di un sostanziale aiuto nel processo – «gli avevano assicurato che lo avrebbero buttato giù» – e di ampie libertà. Accordi di cui il pentito non è stato testimone diretto, ma di cui ha avuto indirettamente prova. «Quando Papalia era detenuto a Parma – spiega – noi facevamo quello che volevamo. Non solo usciva per i permessi premio. Entravamo pure noi in carcere. Io sono entrato nella cella di Emilio Di Giovine, che all’epoca era nostro nemico, per dirgli che doveva lasciarci le sue zone. Nella cella c’era lui in vestaglia, insieme a suo zio, che non era detenuto. E sono entrato io. E io mi chiamo Foschini, con la famiglia Di Giovine non c’entro niente».
L’OSTACOLO MORMILE Benefici che i Papalia e i loro uomini hanno perso quando il boss Domenico è stato trasferito a Opera. A inceppare il meccanismo è stato l’educatore carcerario Umberto Mormile. «Lui aveva capito che Papalia non era cambiato, aveva ancora a che fare con noi, per questo aveva fatto una serie di relazioni negative al tribunale di sorveglianza, che per questo aveva bloccato i permessi». Un problema per il boss, che secondo quanto raccontato dal pentito, nonostante la detenzione, rimaneva il vertice assoluto del clan ed elemento del gotha della ‘ndrangheta reggina tutta, attiva, coesa e dall’agire coordinato e concertato tanto a Reggio Calabria e nella sua provincia come a Milano e in tutta la Lombardia. «In famiglia si diceva che i servizi non potevano fare niente, allora – racconta Foschini – si è pensato all’omicidio». Una decisione sofferta all’interno del clan. Il rischio era che immediatamente lo si addebitasse a Domenico Papalia, destinatario di fin troppe relazioni negative per non diventare sospetto.
NON ERA UN CORROTTO «Per questo – spiega il pentito – prima lo abbiamo avvicinato. Gli abbiamo offerto trenta milioni, ma lui ha rifiutato. È morto perché non era un corrotto». A condannarlo però potrebbe essere stata anche una frase. Dopo aver respinto in malo modo l’offerta del clan, Mormile avrebbe affrontato il boss, «Gli ha detto “Io non sono dei servizi”. E allora Domenico Papalia ha dato l’ordine di ucciderlo». Dopo – racconta – ci avrebbero pensato i servizi a piazzare al suo posto qualcuno di più morbido e malleabile, in modo da ripristinare i margini di libertà e manovra del boss.
L’ESORDIO DELLA FALANGE Quell’omicidio – racconta – è stato firmato come Falange Armata «perché così Papalia mi aveva detto di fare». Nel frattempo, sulla figura dell’educatore sono state riversate accuse e fango. Dopo la sua morte, su di lui è stato detto di tutto. Una strategia per dissipare i sospetti sul clan Papalia? Forse. Ma il pentito non lo sa dire. Di certo però conosce per averla sperimentata di persona la doppiezza – o falsa politica, che dir si voglia – dei vertici massimi della ‘ndrangheta tutta.
LA DOPPIA FACCIA DEI CLAN Foschini è stato infatti testimone diretto delle riunioni organizzate in Calabria per – di fatto – ratificare la partecipazione dei calabresi alla strategia stragista. Formalmente, racconta, erano tutti preoccupati della possibile reazione dello Stato. E poi, aggiunge, «una delle regole di base della ‘ndrangheta era proprio non toccare magistrati e forze dell’ordine. Quando facevamo le rapine, ci dicevano di non sparare mai sulle forze dell’ordine, di scappare o buttare le armi».
«SI BRINDAVA PER L’OMICIDIO DI FALCONE» Quanto meno ufficialmente, a Botricello e Nicotera, dove i massimi esponenti della ‘ndrangheta dei tre mandamenti si sono riuniti per discutere della cosa, tutti o quasi erano in varia misura preoccupati. Qualcuno si è detto addirittura contrario. «Ma quando hanno ammazzato Falcone – racconta con un pizzico di vergogna il pentito – Rocco Papalia era al bar a brindare ed esultare». Magari lo stesso bar in cui è stata festeggiata l’anno scorso la clamorosa assoluzione dall’accusa di aver ucciso D’Agostino, strappata da Domenico Papalia dopo la riapertura del procedimento a quasi trent’anni dalla definitiva condanna all’ergastolo.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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