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Rapina al caveau, il racconto della pentita e i “regali” alle cosche

Storia di una rapina da film. Com’è nata l’idea, come si è formata la banda. I malumori per il bottino e la collaborazione della donna minacciata dal compagno

Pubblicato il: 20/04/2018 – 17:20
Rapina al caveau, il racconto della pentita e i “regali” alle cosche

CATANZARO «Sono a conoscenza dell’episodio legato alla rapina al caveau della Sicurtransport alla quale Giovanni Passalacqua ha partecipato quale basista e coorganizzatore. La vicenda è andata così: Giovanni conosceva da anni un certo Felice, pugliese della zona di Bari, forse Andria, proprietario o gestore di un oleificio. Attraverso lui è entrato in contatto con alcuni pregiudicati di quella zona specializzati nelle rapine ai caveau degli istituti di vigilanza. Il capo di costoro è un tale Alessandro, di cui non conosco il cognome ma che potrei riconoscere in fotografia poiché ho avuto modo di incontrarlo di persona. È di media statura, magro, con i capelli lisci castano chiari e, quando lo ho incontrato io, li portava un po’ lunghi; so che è sposato e dimostra tra i trentacinque ed i quarant’anni. Giovanni mi ha raccontato che frequentando queste persone è nato il progetto di fare una rapina al caveau della Sicurtransport qui a Catanzaro; in particolare quando costoro gli spiegarono quello che facevano Giovanni ne parlò a Paolo Lentini (esponente di spicco del clan Arena, ndr). Costui conosce un responsabile dell’Istituto di Vigilanza che anch’io ho poi conosciuto anche se non per nome. Si tratta di un uomo intorno ai cinquant’anni, alto, di corporatura media, con i capelli brizzolati che possiede un’auto tipo Audi Station Wagon di colore nero; credo che abiti nella zona di Martelletto, so che frequenta il bar appena prima della stazione di benzina a Caraffa e comunque saprei riconoscerlo in fotografia. Attraverso costui Giovanni si procurò delle immagini dell’interno del caveau, registrate con una microtelecamera nascosta in una penna…». Sono queste le prime parole che Annamaria Cerminara pronuncia subito dopo avere deciso di collaborare con la giustizia e porre un punto fermo e decisivo alle indagini condotte dalla Squadra Mobile e dallo Sco di Catanzaro, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia (qui la notizia degli arresti) sulla rapina da 8 milioni di euro effettuata da una banda di 15 persone il 4 dicembre 2016. Il capo della banda è il suo uomo, Giovanni Passalacqua e lei sta scappando da lui che la accusa di avergli sottratto 26mila euro del suo bottino. «Dopo che i filmati vennero portati in Puglia, iniziò a venire a casa mia un membro del gruppo pugliese, tale Vito, che si fermava a mangiare ed a dormire. Il giorno, ma anche qualche notte, andava in giro insieme a Giovanni per cercare dei mezzi pesanti che occorrevano per portare a termine il piano della rapina e per fare dei sopralluoghi», racconta la collaboratrice. «Vito» è Vito De Biase. Ad un certo punto le cosche crotonesi, coinvolte da Passalacqua, decidono di estrometterlo. L’uomo è stato trovato assassinato in Puglia.

(Da sinistra, in alto, in senso orario: Mario Mancino, Dante Mannolo, Giovanni Passalacqua, Leonardo Passalacqua, Massimiliano Tassone, Nilo Urso, Cesare Ammirato)

ENTRANO LE COSCHE CROTONESI Giovanni Passalacqua ha un genero, Dante Mannolo, appartenente all’omonima famiglia di San Leonardo di Cutro. «Pur potendo già contare sull’appoggio di Paolo Lentini, volle coinvolgere il genero per avere maggiori disponibilità economiche da investire e possibilità logistiche ed operative più sicure. Quindi convinse Dante Mannolo ed i suoi fratelli Giuliano, Rocco Fabio ed Ivan a partecipare all’impresa. Dopo questa fase, Vito venne estromesso dalla vicenda per volere di Alessandro e di qualcun altro dei pugliesi e non venne più a casa nostra». Il colpo era previsto per il 15 agosto ma d’improvviso salta tutto. Massimiliano Tassone, responsabile della Sicurtransport per la provincia di Catanzaro e “talpa” della banda avvisa Passaacqua «che bisognava rinviare il tutto perché qualcuno aveva telefonato alla forze dell’ordine informandole che era in procinto di realizzarsi una rapina ad un caveau tra quelli di Cosenza, Reggio Calabria e Catanzaro. Informati i pugliesi, il colpo venne rimandato ed i pugliesi, non so dire come, se ne tornarono a casa. Si sospettava che a fare la telefonata fosse stato Vito, l’uomo estromesso dal progetto, o che vi fossero microspie da qualche parte cosicché da quel momento Alessandro pretese ulteriori attenzioni e cautele e fece verificare spesso le autovetture del gruppo». Ma il colpo è solo rimandato e calabresi e pugliesi continuano a mantenere i rapporti. Il colpo verrà portato a compimento il 4 dicembre 2016, nella notte. Il piano sembra perfetto, il colpo più grosso mai condotto in Calabria, ma non fila sempre tutto liscio. «Mi risulta che ci furono problemi sul bottino poiché chi materialmente entrò nel caveau portò via anche un pacco di qualcosa che non era denaro e questo comportò difficoltà nella spartizione; peraltro mi consta che una ulteriore difficoltà fu causata dal fatto che imprevedibilmente rispetto a quanto accadeva usualmente di domenica, il ristorante sito nei pressi del caveau, la sera della rapina era aperto e questo costrinse il gruppo a modificare i piani in corso d’opera decidendo di andare via prima e prelevando meno denaro di quanto preventivato».
LE SPARTIZIONI CON LE COSCHE Dopo il colpo viene il tempo di distribuire il denaro alle cosche. L’appuntamento è a San Leonardo di Cutro, a casa di Mannolo. «Tre giorni dopo, era venerdì, andai con Giovanni a casa di Dante Mannolo a San Leonardo di Cutro in via Marina. Oltre a lui c’erano anche la moglie Antonella Passalacqua, i fratelli Giuliano, Rocco, Ivan e Fabio, Pasquale Ventura. In quella circostanza Dante disse ad Ivan o Fabio di andare a prendere i soldi che erano sotterrati vicino la casa in due borsoni neri. Il fratello andò ed al ritorno depositò sul tavolo i due borsoni. Dentro c’era il bottino, prevalentemente mazzette di denaro da cinquantamila euro e da cinquemila euro fascettate con dei nastri di carta bianca e raccolti in pacchi a forma di cubo per un milione e duecentomila euro», racconta Cerminara.
«Era stato predisposto un elenco con tutti i destinatari di quote più o meno grandi del bottino; a Giovanni spettavano 230mila euro, a Cesare Ammirato 100mila, a Nanà 50mila euro, all’uomo della Sicurtransport, al giovane del camion di Alli, a Pietro Procopio, a Paolo Lentini, a Rotundo altre somme che non ricordo, a quel tale Caputo di Rossano o un suo parente (che avevano fornito l’escavatore per rompere il muro del caveau, ndr) ai Mannolo ed a Ventura tutto il resto al netto di somme a titolo di regalia destinate a vari capi delle cosche dell’area interessata, quella di Mesoraca, quella di Cutro, quella di Roccelletta, quella di San Leonardo ed altre ancora. I soldi quindi ripartiti secondo questo elenco, imbustati e lasciati in custodia a Dante Mannolo. Dopo circa una settimana Giovanni, accompagnato da me – prosegue la pentita – andò a prendersi la sua parte e prese anche in consegna quelle degli altri catanzaresi. Consegnò lui stesso le quote di Ammirato, di Nanà, dell’uomo della Sicurtransport, di Pietro Procopio, di Rotundo, del giovane del camion di Alli e quella di Raffaele Currao che mi incaricò di consegnare».
SPARTIZIONI E LITIGI «Della distribuzione di tutto il resto fu incaricato Dante Mannolo con i suoi fratelli», dice la collaboratrice, che racconta anche come Passalacqua non fosse soddisfatto del risultato della distribuzione: «Giovanni non fu molto contento della distribuzione del bottino, pensava fosse più cospicuo e comunque non gli sembrava giusto che gli zii Abbruzzese e Veceloque non avessero ricevuto, come tutti gli altri “notabili” della criminalità, un regalo. Circa un mese e mezzo dopo la rapina Giovanni andò in Puglia per chiedere ad Alessandro a quanto ammontasse la parte di bottino che aveva lasciato qui in Calabria. Costui gli rispose che si trattava di un milione ed ottocentomila euro e questo fece andare in bestia Giovanni con suo genero che di fatto, pur negando la circostanza, secondo lui lo aveva imbrogliato. Da quel momento i rapporti tra i due sono molto freddi e tesi».
LE ACCUSE E IL PENTIMENTO Il denaro dannava l’anima di Giovanni Passalacqua. Convinto che qualcuno, in qualche modo, lo avesse fregato, gli avesse rubato parte della sua quota di denaro. Dai dissidi con Mannolo passa a sospettare anche della compagna, fino a spaventarla a morte. Sarà la sua mossa sbagliata, il suo scacco matto. «La parte di denaro di Giovanni è stata custodita a casa di mia madre in località Cavorà di Gimigliano, nascosta in una buca», racconta Annamaria Cerminara. Lì Giovanni, quando ne aveva bisogno, andava a prelevare parti del bottino. A marzo scorso Passalacqua si convince che dal bottino mancano 26mila euro. Accusa la Cerminara. «Proprio da ciò è nata la sua pretesa di questi giorni di farsi restituire da mia madre e da me quei 26mila euro di cui ho parlato all’inizio di questo verbale e che a suo dire mancano dal conto che egli teneva», racconta lei ai magistrati. Il 21 marzo Annamaria Cerminara si presenta in questura. È spaventata, ha lasciato il compagno ed è combattuta, non sa cosa fare, se denunciare tutto perché l’uomo venga arrestato e allontanato da lei e dai suoi familiari o tornare sui suoi passi. Lui la cerca, parla con un tale Nicola al telefono e lo minaccia: «Se io so adesso che tu sai dov’è Anna, tu ti sei messo in un brutto quarto d’ora». Si rivolge alla madre di lei e ammette che lui era arrabbiato e che era consapevole di avere sbagliato, in quanto era nervoso. In un’altra conversazione ammette con la suocera di «averla fatta grossa». Ormai, però, è tardi. Annamaria Cerminara è con i magistrati Debora Rizza, Paolo Sirleo e Domenico Assumma. Ha deciso di collaborare e sta schiacciando il pulsante rosso su quel piano “perfetto”.
«A questo proposito io nego di aver preso per me qualsiasi somma – dice tra le altre cose – e penso che in realtà, poiché nessuno a suo tempo li contò, quei soldi erano meno dei 230mila che sarebbero spettati a Giovanni secondo gli accordi. In ogni caso delle somme che erano state nascoste a casa di mia madre ora lì non c’è più niente, gli ultimi 50.500 li ha presi Domenico, il figlio di Giovanni Passalacqua la scorsa settimana».
PERICOLO DI FUGA La collaborazione della Cerminara non sarà serena né continua. Ad un certo punto Passalacqua la convince a tornare sui suoi passi, anche grazie all’aiuto di una amica, Marinella. Lei ritorna a casa della sua famiglia ma Passalacqua vuole che Annamaria Cerminara vada a stare da lui, nel quartiere Santa Maria, vuole che riferisca tutto quello che aveva raccontato alla polizia e ai magistrati, altrimenti «o ci avrebbe pensato lui, o ci avrebbero pensato loro». Perché “loro”, tutto il resto della banda, hanno saputo che lei ha parlato con la polizia. Il 14 aprile 2018 Annamaria Cerminara chiede l’intervento della polizia. Raggiunta dagli agenti a casa sua, si fa trovare in compagnia dei genitori e del figlio. Sono tutti impauriti e chiedono protezione. La Cerminara aderisce nuovamente al programma di protezione testimoni e questo mette in allarme Passalacqua e tutti i suoi sodali, tutti appoggiati dalle cosche crotonesi, capaci di disporre di bunker e, scrivono i magistrati, «non è da omettere il dato, acclarato giudizialmente, secondo cui le organizzazioni cutresi, mesorachesi e petiline dispongono di articolazioni sedenti nel territorio del nord Italia e anche estero il che renderebbe ancor più difficoltose le ricerche». L’operazione deve scattare.

Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it

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