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Le macroregioni, la «grande riforma»

di Antonino Mazza Laboccetta*

Pubblicato il: 28/04/2018 – 13:13
Le macroregioni, la «grande riforma»

È stato teorizzato come il «paradosso della riforma»: quanto più un sistema politico-istituzionale ha bisogno di riformarsi tanto più è incapace di farlo.
Muovendo dal presupposto politico della necessità del cambiamento, la nostra Costituzione è stata investita più volte dal vento riformatore. Ricordo velocemente la «Commissione Bozzi», la «Commissione De Mita-Iotti», la «Commissione D’Alema»: si sono susseguite negli anni che vanno dal 1985 al 1997, disegnando grandi scenari di riforma. Ricordo ancora le «grandi riforme» del centro-destra del 2005. E, infine, quella di marca renziana del 2016. Disegni riformatori di largo respiro, che miravano ad incidere sull’impianto complessivo della forma di Stato e di governo del nostro Paese.
Ebbene, sono tutti falliti. La nostra Costituzione ha sempre veracemente resistito ai “colpi” dei grandi mutamenti.
L’unica grande riforma andata in porto è quella che, a colpi di maggioranza, ha introdotto il centro-sinistra nel 2001: la riforma del Titolo V della Costituzione. Per molti versi rimasta incompiuta. Per molti versi foriera di incertezze, cui deve supplire il lavorio costante della giurisprudenza della Corte costituzionale.
La nostra Costituzione si è, invece, dimostrata aperta ai piccoli mutamenti. E di piccoli mutamenti, al momento, ce ne sono stati circa trentacinque.
Il fallimento di tutti i grandi conati di riforma vorrà significare pure qualcosa. Innanzitutto, ci dice che la nostra Costituzione non è lo Statuto della bocciofila, ma la carta che fino a questo momento ha retto lo sviluppo del nostro Paese, facendolo uscire dalle macerie della guerra, aprendogli la strada del miracolo economico, proiettandolo sulla scena dei paesi industrializzati. Pur con tutti i problemi che oggi l’Italia vive. Per ragioni, però, di cui la Costituzione non è “la” causa. Assai più probabilmente la Costituzione è il capro espiatorio di un sistema politico andato alla deriva.
Se è così, il giudizio sulla Costituzione non va dato con il metro della politica, delle sue variabili maggioranze, dei suoi mutevoli umori. Ma va dato con il metro di chi della Costituzione sa ascoltare il palpito e misuralo attraverso lo scorrere del tempo e delle vicende storiche, economiche, sociali che ha attraversato (ed attraverserà) il nostro Paese. Diceva Calamandrei: «quando si scrive la Costituzione, i banchi del governo devono restare vuoti».
L’ultimo assalto alla Costituzione, quello condotto sotto le insegne di Renzi-Boschi, aveva, per carità, del buono. Ma c’era anche del cattivo. Votare in blocco la riforma, inoltre, non ne ha favorito il successo. Ma non l’hanno favorito soprattutto la politicizzazione e la personalizzazione della riforma. Il messaggio lanciato dal corpo elettorale è che la Costituzione – scritta dall’Assemblea costituente (e non è il caso di ricordarne i componenti!) – è una carta che non può essere maneggiata dalla politica “militante” e data in pasto alle sue tattiche. Né, ancor meno, può essere scritta da un governo (o dall’inner circle di Renzi) su cui il corpo elettorale cominciava da tempo a nutrire le sue riserve.
Il tonfo che ne è seguito ha cambiato radicalmente gli scenari politici. È dal 5 dicembre 2016 – il day after del referendum costituzionale – che siamo in campagna elettorale.
Si è passati ad un sistema elettorale fortemente proporzionalistico (grosso modo al rovescio del Mattarellum), e del proporzionale scontiamo gli effetti. Abbiamo votato il 4 marzo, ed ancora non abbiamo un governo.
Il sistema elettorale non è la “bacchetta magica”. Ma è certamente uno strumento importante per la “ricomposizione” del sistema politico. E di ricomposizione del sistema politico, attraverso una buona legge elettorale, c’è bisogno. Ma scrivere una buona legge elettorale non è facile se la lasciamo in mano alla politica militante, a chi cioè utilizza la legge elettorale come strumento di lotta politica. Leggi elettorali di questo tipo – a parte il fatto che non di rado puniscono chi dovrebbero favorire – non sono buone leggi elettorali, poiché non aiutano il sistema politico a trovare la ricomposizione necessaria ad assicurare il buon governo delle istituzioni e della società. Dobbiamo prendere ancora in prestito le parole di Calamandrei: è necessario che i banchi del governo siano vuoti non solo quando si scrive la Costituzione, come riteneva Calamandrei, ma anche – aggiungiamo noi – anche quando si scrive la legge elettorale. È una coperta sempre troppo corta se a scriverla è la politica militante. Può invece calzare alle esigenze del sistema istituzionale e della società se a scriverla è chi riesce, per cultura ed indipendenza, ad astrarsi dal livello della lotta politica.
Dunque, più che di grandi riforme costituzionali, abbiamo bisogno di una buona legge elettorale.
Tuttavia, soggiungo sommessamente che, se o quando si sarà acquietato il quadro politico, c’è, in realtà, una grande riforma di cui ci sarebbe bisogno. Riforma difficile, improba. Perché tocca più o meno false identità, campanilismi. E perché no? Anche tante poltrone.
La Francia è passata da 22 regioni a 13 macroregioni. Ha costruito cioè regioni di taglia europea, capaci di confrontarsi con uno scenario rinnovato.
L’Italia, come accennato sopra, ha fatto la riforma del Titolo V, dando alle regioni ampio spazio legislativo. Ma non sarebbe il caso di considerare le (buone) ragioni che indurrebbero ad un riordino territoriale del nostro Paese? Se pensiamo che la Valle d’Aosta ha una popolazione inferiore a quella della città di Reggio Calabria; se pensiamo che il Molise ha una popolazione di circa 300mila abitanti, meno di una città media (e Salvini addirittura lo vorrebbe utilizzare come leva nella trattativa per la formazione del governo!); se pensiamo che, mettendo insieme regioni come la Calabria, l’Abruzzo, le Marche, la Liguria, non arriviamo ad eguagliare la popolazione di Roma; se pensiamo che la stessa Reggio Calabria è più vicina a Messina, e non solo in termini di distanza, beh, allora, qualche ragione per riflettere c’è.
Nel 2014 fu istituita la Commissione Lanzetta, cui fu dato il compito di valutare la fattibilità delle modifiche da apportare all’assetto regionale attuale. Due le indicazioni che vennero fuori: la prima legata alla necessità di un coordinamento operativo e gestionale tra le regioni; la seconda legata alla necessità di individuare i meccanismi costituzionali di riduzione del numero delle regioni e della modifica dei confini territoriali.
Non mi pare che la questione del riordino territoriale sia oggi nell’agenda politica. Sempre in agguato, invece, le molte altre “grandi” riforme su cui tanto (inutile) sforzo di elaborazione il Paese ha consumato. O, forse meglio, subito.
Ridurre la spesa pubblica; creare regioni di taglia europea; definire territori più coerenti per le politiche regionali. Così la Francia ha giustificato l’esigenza di accorpare le sue 22 regioni e di fare le 13 macroregioni. Appunto, la Francia.

*docente dell’università Mediterranea di Reggio Calabria

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