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«Il sangue infetto viaggiava in contenitori da campeggio»

Arrivano le motivazioni della condanna del primario e del direttore sanitaria dell’ospedale di Cosenza. Cesare Ruffolo morì a causa di un batterio presente in una sacca. E malgrado il comitato per …

Pubblicato il: 04/05/2018 – 18:54
«Il sangue infetto viaggiava in contenitori da campeggio»

COSENZA Su come la sacca di sangue 4725 sia arrivata dal centro di raccolta di San Giovanni in Fiore fino al centro trasfusionale di Cosenza ci sono voluti indagini e cinque anni di processo. In quella sacca oltre agli elementi corpuscolati del sangue viaggiava anche un batterio chiamato serratia marcescens, che decretò la morte di Cesare Ruffolo il 4 luglio del 2013 dopo una trasfusione di routine visto la leucemia di cui soffriva da 19 anni. A rispondere di quella morte, in primo grado di giudizio, sono stati Marcello Bossio e Osvaldo Perfetti, mentre per l’altro imputato Rizzuto Luigi (difeso dagli avvocati Francesco Chiaia e Gianluca Bilotta) il collegio giudicante ha disposto l’assoluzione per non aver commesso il fatto.
LA SENTENZA La condanna per i due imputati che ricoprivano all’epoca dei fatti rispettivamente il ruolo di primario del reparto di Immunoematologia e di direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera dell’Annunziata di Cosenza arrivò il primo giorno del mese di febbraio del 2018. Oltre all’interdizione dai pubblici uffici per sei mesi e al pagamento per le spese processuali per Marcello Bossio la pena riportata è di 2 anni di carcere, per Osvaldo Perfetti è di 7 mesi.
“SANGUE INFETTO” L’ANTEFATTO Il 4 luglio del 2013 Cesare Ruffolo moriva all’ospedale di Cosenza durante la trasfusione di sangue, a nulla servì il ricovero in medicina generale. Le cause della morte accertate sono quelle della sepsi causata dalla trasfusione. A lanciare il campanello di allarme qualche giorno prima fu Francesco Salvo, vivo solo per un sistema immunitario più efficace vista la giovane età. Il comitato per la lotta alle infezioni ospedaliere, si riunì qualche giorno dopo quello che nelle carte giudiziarie è diventato il “caso Salvo” stabilendo che dal centro Avis di San Giovanni in Fiore non dovessero arrivare più sacche per le trasfusioni.
«Si decide di non utilizzare le sacche pervenute da San Giovanni in Fiore – scrivono nel verbale del comitato – e di procedere ad esami colturali sulle sacche giacenti ancora presso il nostro centro trasfusionale». Il meccanismo, annotano i giudici, non era stato ben attuato perché la trasfusione fatta ai danni di Ruffolo dimostra palesemente come le sacche venissero ancora utilizzate. Il serratia marcescens, secondo le consulenze, ha contaminato così le sacche: gli operatori si lavavano le mani con un sapone chiamato Germocid (infettato) e palpando l’avambraccio del donatore ne contaminavano la cute, che a seguito della puntura venosa defluiva nelle sacche insieme al sangue prelevato. Ovviamente, nulla sarebbe accaduto, se la sacca di sangue sarebbe stata correttamente conservata, trasportata e maneggiata. E qui si arriva al secondo punto grave della vicenda. Il sangue da San Giovanni in Fiore a Cosenza arrivava in contenitori da campeggio autorefrigeranti con all’interno ghiaccioli secchi. Ma i locali delle donazioni del comune silano non brillavano per le caratteristiche dei luoghi deputati a tali attività. Gli ispettori della regione annotarono 65 criticità, le stesse che ritrovarono anni dopo i militari del Nas dei carabinieri dopo la denuncia fatta dalla famiglia Ruffolo. I problemi più gravi erano: i locali non idonei all’attività di raccolta, il microclima inadeguato, il trasporto sangue in modo non controllato e la totale assenza di procedure di trasporto. Lorenzano Alfonso, presidente dell’Avis di San Giovanni in Fiore all’epoca dei fatti, raccontò ai giudici come le modalità di trasporto, per quanto a sua conoscenza, mai venivano contestate dal centro trasfusionale di Cosenza fino agli eventi del giugno 2013.
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA Il collegio giudicante a fine istruttoria definisce il presidio si San Giovanni in Fiore “invaso” dalla serratia marcescens. Ai due condannati i giudici contestano le omissioni che si sono seguite subito dopo il primo campanello di allarme relativo all’evento Salvo. Il comitato per la lotta alle infezioni ospedaliere è «rimasto lettera morta». Bossio, scrivono i giudici, in quanto primario del centro trasfusionale decide di non informare il personale medico e paramendico circa la decisione assunta in seno al comitato così come Perfetti nelle sue vesti di presidente del Cio e direttore sanitario del Po di Cosenza nulla faceva per accertarsi della effettività del fermo alle sacche. Questo per i giudici è una «condotta omissiva casualmente rilevante rispetto al decesso di Ruffolo. Perché avrebbe evitato alla sacca di arrivare a Cosenza». La mancata sottoscrizione del verbale da parte di Bossio alla corte appare irrilevante visto che non appare dubbia la sua presenza alla riunione della commissione per i giudici il primario doveva attivarsi affinché si rispettasse la decisione assunta. Altro argomento che cade è quello del “tutti sapevano”. Osvaldo Perfetti, invece, non vigilava sulla alla scelta adottata dal comitato venendo meno un suo dovere di vigilanza.

Michele Presta
m.presta@corrierecal.it

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