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Clan della Jonica, chiesto il processo per 215 persone

Per l’accusa gli indagati sono capi e gregari delle cosche della Jonica. I reati contestati vanno dall’associazione a delinquere all’estorsione. Il 21 maggio l’udienza davanti al gup. Il nipote del…

Pubblicato il: 04/05/2018 – 18:36
Clan della Jonica, chiesto il processo per 215 persone

REGGIO CALABRIA Dovranno presentarsi tutti il prossimo 21 maggio di fronte al gup Filippo Aragona i 215 indagati dell’inchiesta “Mandamento jonico”, la monumentale indagine che ha radiografato struttura, dinamiche e affari di una ventina di piccoli e grandi clan dello Jonio reggino.
L’INCHIESTA Alla sbarra ci saranno elementi di vertice, capi e gregari di ventuno famiglie della ‘ndrangheta della Jonica, più uomini deii Ficara-Latella e dei Serraino di Reggio, e dei clan di Sinopoli, piccolo paese aspromontano considerato strategico perché storica “cerniera” fra la ‘ndrangheta di città e quella della Piana di Gioia Tauro. Per tutti il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha chiesto il rinvio a giudizio per reati che vanno dall’associazione mafiosa, all’estorsione, a porto e detenzione illegale di armi, trasferimento fraudolento di valori, truffa ed altri reati, tutti aggravati dalla finalità di agevolare l’organizzazione mafiosa.
È questo il primo giro di boa di un’indagine vasta, complessa che restituisce l’immagine tridimensionale di uno Stato che pretende di essere parallelo e alternativo alla Repubblica e parla per bocca di soggetti come Giuseppe Ringo Morabito, nipote di don Peppe Tiradritto e autoproclamato Re sole della Locride, che intercettato dice: «Lo Stato qua sono io, la mafia originale, non quella scadente». E forse non a caso. Perché – è emerso dall’indagine – nella jonica la ‘ndrangheta controlla tutto. Gli appalti, l’edilizia pubblica, quella privata, le elezioni, infiltrandosi nei cantieri finisce per guadagnare anche sui beni che le sono stati confiscati, regola con i propri tribunali i rapporti fra gli associati e fra i clan, istruisce processi, commina sanzioni, arriva perfino a “regolare” le relazioni sentimentali di giovanissime figlie di boss, punendo ex fidanzati stufi o fedifraghi. E per molti diventa un modello.
L’ASPIRANTE PICCIOTTO Lo hanno scoperto i carabinieri ascoltando i familiari del boss Antonio Cataldo “Papuzzella”, la cui figlia quindicenne ha raccontato alla madre di essere stata avvicinata da un compagno di scuola, che le avrebbe dato una lettera “di autocandidatura” da consegnare al padre, alla successiva visita in carcere. Chi sia l’aspirante picciotto, la figlia di Papuzzella non lo sa. «Quindici (15) anni c’ha questo ragazzo!» dice. «Me l’è venuto a dire la bidella. Mi ha detto “vedi che ti cerca tuo cugino!”. Gli ho detto “… e chi è mio cugino?”. Io gli ho detto che non siamo cugini … non so da dove gli è uscita sta cosa!», racconta indignata. «È venuta o portarmela in classe! E ogni cosa! Ma stiamo scherzando, qua? La parentela da dove gli è uscita!?» dice quasi sorpresa – e non piacevolmente – da quel contatto. Al padre – annuncia – non parlerà neanche di quella missiva. Ma con la madre vuole condividerla. Buongiorno carissimo, come va?», esordisce il ragazzo, che fa un po’ a pugni con le parole prima di arrivare al punto: «io sottoscritto (omissis) vorrei mettermi a disposizione per Voi e la vostra famiglia».
APPALTI E AFFARI Una lettera di autocandidatura in piena regola, che sconvolge ma in un certo senso non stupisce gli investigatori. Perché non c’è ambito pubblico e privato in cui i clan non si infiltrino e di cui non si approprino. I metodi sono diversi, il fine unico.  C’è l’infiltrazione nelle amministrazioni comunali, con innumerevoli turbative d’asta attraverso il metodo dei “lavori di somma urgenza”, il controllo di forniture, l’imposizione di manodopera e materiali a ditte compiacenti, o ancora la fittizia intestazione di società usate per accaparrarsi l’appalto, magari grazie ad un accordo premio con avversari o concorrenti. E c’è il condizionamento dei cantieri privati delle aziende chiamate a realizzare opere pubbliche o infrastrutturali importanti e che – tutte – si piegano al volere dei clan.
LE MANI SULL’AGRICOLTURA Ma gli interessi dei clan non si limitano a cantieri e mattone. Anche i campi sono un ricco business, soprattutto se innaffiati dai milioni stanziati da Bruxelles per sostenere l’economia calabrese. Paradosso nel paradosso, gli stessi clan responsabili di aver sottratto al territorio risorse importanti per un rilancio vengono visti come salvatori, perché in grado – quanto meno per gli operai del Consorzio di bonifica. Tutti impegnati a lavorare per il boss Rosi Barbaro piuttosto che per il Consorzio.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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