Non si può certo dire che il governo Renzi non si sia caratterizzato per il piglio riformatore. E, in realtà, di riformatore non ha avuto solo il piglio. All’elevato grado di dinamismo politico è seguita, infatti, un’incisiva azione riformatrice.
Due sono le prospettive attraverso le quali potremmo guardare alle riforme del triennio di governo renziano: l’una diretta a misurare gli effetti che ne sono scaturiti; l’altra ad individuare quale modello di società e di sviluppo le riforme renziane sottendano.
Quanto alla prima prospettiva, va subito precisato che gli effetti di ogni riforma non possono essere misurati nel breve periodo, ma solo nel medio-lungo periodo. Ciò nondimeno, qualche giudizio lo si può esprimere fin da subito, pur con tutte le cautele del caso. L’ultima prospettiva consente, invece, di dare una valutazione più compiuta.
L’azione riformatrice di Renzi si è dispiegata su diversi fronti: da quello economico a quello sociale (con riguardo a quest’ultimo profilo, mi riferisco, in particolare, alla riforma della pubblica amministrazione, della scuola, ai provvedimenti sui diritti civili, alla [mancata] riforma costituzionale).
Ma il profilo sul quale vorrei riflettere è quello più strettamente economico.
JOBS ACT E INDUSTRIA 4.0 Sul piano economico riforme importanti sono certamente Jobs Act e Industria 4.0.
La prima muoveva dall’assunto secondo cui la tutela dei lavoratori a tempo indeterminato fosse caratterizzata da eccessiva “rigidità”, che finiva per comprimere la possibilità dei lavoratori a tempo determinato, perlopiù giovani, di “salire” verso la stabilizzazione. L’assunto resta, tuttavia, indimostrato, se è vero che l’analisi empirica evidenzia come il mercato del lavoro pre-riforma fosse più fluido di quanto generalmente si creda. In un mercato del lavoro segnato da grave crisi occupazionale la “rigidità” del «posto fisso» è più totem che realtà. Lo stesso potere contrattuale del lavoratore «a posto fisso» ne risulta minato, esposto com’è ai “ricatti” aziendali e alla concorrenza “al ribasso” di chi, in un contesto di disoccupazione cronica, è fuori dal circuito lavorativo ed è, perciò, disposto a “rinunciare” a diritti e garanzie pur di lavorare (v. vicenda FIAT).
Il problema, dunque, non era il contratto a tempo indeterminato. Occorreva, piuttosto, indirizzare il bisturi sui lavori precari, atipici, flessibili, puntando ad eliminare quelli più penalizzanti e meno protetti. In una situazione di grave crisi occupazionale, “smontare” il lavoro a tempo indeterminato è cura che rischia di uccidere il malato; molto più difficilmente riesce a guarirlo. E, però, Renzi ha avuto la meglio dove pure Berlusconi aveva fallito.
L’altra riforma, Industria 4.0, punta ad introdurre nell’economia modelli di produzione e gestione aziendali caratterizzati dalla connessione tra sistemi fisici (macchinari) e sistemi digitali (internet). È il c.d. modello di «internet of things». Un segmento di mercato di notevole valore, capace di attrarre un’ingente massa di investimenti e di stimolare energicamente ricerca &sviluppo e innovazione tecnologica. La si definisce la «quarta rivoluzione industriale». Un processo di «distruzione creatrice» che porterebbe, per effetto della robotizzazione, alla scomparsa di vecchi lavori e, al tempo stesso, all’emersione di nuove professionalità in grado di gestire i più avanzati sistemi di connessione tra macchinari e dispositivi digitali. Il fatto che ricerca e innovazione tecnologica costituiscano gli assi e le direttrici dello sviluppo di Industria 4.0 induce a guardare con fiducia alle nuove prospettive economiche, alla condizione, però, che si inverta realmente – e non con le vuote enunciazioni di rito – la rotta dei tagli alla spesa per la scuola, per l’università, per la ricerca.
Ciò nondimeno, appare enfatico parlare di «quarta rivoluzione industriale», se si considera che il potenziale innovativo di Industria 4.0 non è tale da cambiare il “paradigma” di sviluppo del nostro capitalismo come lo sarebbe, invece, la c.d. «green economy». Su cui i riflettori, durante il governo Renzi, sono rimasti spenti.
All’orizzonte non è ancora chiaro quale sarà, in termini occupazionali, il “saldo” della robotizzazione. Non siamo nemmeno in grado di prevedere con nettezza se la robotizzazione, falcidiando il lavoro a basso contenuto conoscitivo, allargherà ancor di più le disuguaglianze. Né siamo nelle condizioni di affermare che tutti i settori produttivi risentiranno nello stesso modo e nella stessa misura dell’apporto innovativo di Industria 4.0.
Anche per queste ragioni sarebbe stato più prudente, da parte del governo Renzi, un atteggiamento diverso sul mercato del lavoro, e meno dirompente.
ALTRE MISURE ECONOMICHE Alle riforme strutturali, di cui ho appena detto, altre se ne aggiungono. E anch’esse delineano i tratti tipici della cosiddetta economia dell’offerta. Si tratta di misure dirette a innovare l’approccio della politica economica italiana, restituendo maggiore libertà di movimento all’iniziativa economica privata e riducendo il peso dei vincoli amministrativi. E si fondano sull’assunto che la ritrazione dello Stato dal terreno di gioco dell’economia, aumentando i margini di profitto delle imprese, si risolva in maggiori investimenti nell’economia reale. Mi riferisco, in particolare, alle azioni intese alla riduzione delle imposte, alla detassazione e incentivazione fiscale e al taglio della spesa pubblica.
L’assunto, già discutibile sul piano teorico, si è rivelato deludente alla prova dei fatti, non foss’altro perché nella situazione di crisi della domanda, nella quale si trova(va) il Paese dopo la tempesta economico-finanziaria del 2007/08, i margini di profitto delle imprese non si sono trasformati in nuovi investimenti (perché investire se «il cavallo non beve»?), ma hanno semmai alimentato l’economia finanziaria. Sarebbe stato preferibile impostare, attraverso azioni di sostegno pubblico, un programma strategico di recupero complessivo del sistema industriale del nostro Paese, fortemente eroso e logorato dalla crisi.
Le misure strutturali sono state “controbilanciate” con (deboli) misure di sostegno della domanda, che, alla prova dei fatti, hanno avuto più sapore propagandistico che efficacia reale. Penso alla politica dei bonus, per molti versi sospinta dalle azioni con le quali il governo Renzi ha inteso lucrare margini di flessibilità fiscale nel dialogo con le istituzioni europee. L’atteggiamento “spavaldo” di Renzi nei confronti delle politiche europee di austerità non ne ha, tuttavia, cambiato l’impalcatura, le strategie e gli obiettivi, nemmeno quando, con la presidenza di turno dell’Unione europea, l’azione del nostro governo avrebbe potuto essere più incisiva.
Prova ulteriore, se mai ve ne fosse bisogno, dell’erosione del nostro tessuto economico-industriale è la crisi bancaria, che, diversamente da quanto accaduto negli altri Paesi, è dipesa più dall’enorme massa di sofferenze e di fallimenti delle nostre imprese che non dall’eccessivo ricorso agli strumenti finanziari da parte delle banche coinvolte.
Crisi, quella bancaria, che ha avuto sul governo Renzi e sulla sua immagine conseguenze politiche assai vicine al livello di quelle seguite alla bocciatura della riforma costituzionale, se non addirittura pari. Occorreva mettere mano al sistema bancario con una forte iniziativa pubblica. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano.
GLI EFFETTI DELLE POLITICHE RENZIANE Diversi gli indicatori che parlano di crescita e di maggiore occupazione. E ovviamente molte le rivendicazioni dirette ad ascrivere al governo Renzi i segnali positivi.
Per carità, sarebbe prematuro dire il contrario. L’ho premesso: gli effetti delle riforme strutturali si misurano nel medio-lungo periodo. Ma, sin d’ora, non si può non sottolineare che i segnali positivi che vengono dalla crescita e dall’occupazione vanno inscritti in un contesto europeo e globale di ripresa economica, in larga misura sospinta dalle politiche monetarie espansive della BCE. È senza precedenti l’iniezione di liquidità immessa da Draghi nel sistema economico con il quantitative easing.
Quanto all’occupazione, bisognerebbe moderare i toni troppi trionfalistici, e considerare, più che la “quantità”, la “qualità” della nuova occupazione. Senza dire dei “diversi” metodi di rilevazione degli occupati.
IL PROFILO DEL GOVERNO RENZI Molto altro si potrebbe dire del triennio di governo renziano sul piano economico-fiscale. Ma il quadro che emerge dagli spunti sin qui offerti è abbastanza chiaro per concludere sul profilo con il quale esso si è presentato al Paese.
Un’esperienza di governo, quella di Renzi, che ha portato alla frattura del Partito democratico, giusta o sbagliata che sia: non è qui che vorrei discuterne. E ha pure portato il Partito democratico al livello di consenso più basso della sua storia.
Certo, le cause sono molteplici. Ma non v’è dubbio che Renzi abbia avuto, da Presidente del Consiglio e, insieme, segretario del Partito di governo, la golden share del governo e del partito. E, a giudicare dagli ultimi eventi, pare proprio che, pur da semplice senatore di Scandicci, abbia ancora il suo peso e il suo bel seguito nel Partito democratico. Che gli consentono di esercitare notevole influenza non solo nel partito, ma, come abbiamo visto nel corso delle consultazioni per la formazione del governo, nelle dinamiche politico-istituzionali.
Resta, però, come un macigno il dato di un Partito punito dagli elettori. Un dato che deve interrogare, e che porta all’altra prospettiva con cui vorrei guardare, come anticipato in esordio, all’esperienza di governo di Renzi, per capire quale visione di società e di sviluppo gli elettori abbiano voluto respingere.
Non v’è dubbio che la visione di Renzi sia quella di una sinistra liberale che, a differenza di quella democratica, guarda al mercato come asse centrale della società e come “metodo” della redistribuzione del reddito: riduzione dell’intervento dello Stato e della quota di reddito che esso intermedia, aumento della concorrenza, diminuzione delle imposte e restituzione di quote di reddito a famiglie e imprese perché aumenti il loro grado di libertà “dallo” Stato (libertà individuale). È su questa visione di fondo che si è giocata e si gioca la differenza con la sinistra democratica, che tassa ai ricchi per distribuire ai più poveri secondo criteri di equità di progressività; che, pur non rigettando il mercato, attribuisce allo Stato il ruolo strategico di decisore ultimo, di regolatore. Che non vuole rinunciare ad indicare alla società una direzione.
Il discorso è lungo, e meriterebbe altro approfondimento. Ma, in estrema sintesi, si gioca tutta qui l’identità del Partito democratico.
*docente dell’università Mediterranea di Reggio Calabria
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