Nel tourbillon dei pareri per trovare una soluzione nel comporre il governo c’è da domandarsi quanto pesa il parere espresso dagli elettori e quanto quello dei partiti, se cioè c’è un legame tra gli interessi del Paese reale e quelli delle varie sigle politiche. Quale che sia la risposta, rimane da capire cos’è l’interfaccia tra il mondo politico che sembra collocarsi sempre più lontano dai problemi reali di una comunità che si aspetta soluzioni capaci di far superare una realtà che non può essere più considerata congiunturale avviandosi, a grandi passi, a divenire stabile e perniciosa. La mancanza di interventi importanti, quali il lavoro, la ripartizione degli emigranti tra tutti gli stati dell’Unione Europea, una giustizia che specie nel civile ha bisogno di tempi più rapidi, di interventi per combattere il voto di scambio per il quale sarebbe sufficiente riprendere la “Legge Lazzati” nella sua stesura originale cioè prima che fosse stravolta dal Parlamento e resa inefficace, norme rigide sul falso in bilancio, lotta al caporalato, sostegno alle famiglie che versano in precarie condizioni, non solo sono causa della perdita di credibilità nel rapporto con gli altri Paesi, ma soprattutto rallentano la crescita interna.
Di cosa non avrebbe, invece, bisogno l’Italia? Delle liti politiche, divenute frequenti tra i partiti e, ancora più grave, all’interno dei partiti stessi, che in alcuni casi suonano come un vero e proprio regolamento dei conti. Ci pensino i segretari della galassia politica; tentino essi di valutare l’opportunità di pensare più ai cittadini che sicuramente hanno la priorità su tutto invece di non considerarli mettendoli nelle retrovie delle cose da fare. L’impressione che si coglie dal di fuori è che la “rivoluzione” tanto sbandierata in campagna elettorale da tutti gli schieramenti sia stata già accantonata, messa da parte secondo l’antica e sempre valida attività dei pataccari. Ciò purtroppo fa emergere il senso perverso dell’ennesima presa per i fondelli nella quale coloro che ci rappresentano dimostrano di essere maestri, abili ad addossare le responsabilità sugli altri, così bravi da ottenere spesso anche considerazione.
L’Italia ha bisogno di un Governo stabile, efficace per quanto riguarda la soluzione delle cose interne e forte e determinato nei rapporti con la Comunità Europea. Un esecutivo che comprenda che non è più tempo di strategie, di tranelli, di atteggiamenti e di parole consegnate al vento. La realtà con la quale bisogna fare i conti, dopo oltre 60 giorni dalle elezioni, è che gli italiani purtroppo si debbono accontentare del nulla, del vuoto. Con l’aggravante che, se non si dovesse trovare una via d’uscita nelle prossime ore, bisognerà varare un governo di scopo e ritornare a nuove elezioni. Se così fosse l’unica cosa certa saranno le spese per riportare gli elettori ai seggi; per tutte le cose serie da affrontare non ci saranno invece speranze considerato che gli addetti alle manovre sono sempre gli stessi. Una circostanza, questa, insopportabile che pesa soprattutto sugli elettori. Abbiamo omologato un principio, poco democratico per il vero, secondo il quale in Italia può cambiare tutto ma non i mestieranti della politica che rimangono sempre gli stessi capaci come s’è visto di condizionare la vita della comunità. Ovviamente le responsabilità sono ripartibili tra la società (detta) civile, che puntualmente si dimostra incapace di dare una svolta sostanziale al sistema, grazie al quale ci ritroviamo ad aver mutato anche le regole, accettando acriticamente la formazione dei partiti personali in cui il leader indica anche quale deve essere il senso. Un sistema che ha poco a che vedere con il superiore interesse dei cittadini ai quali, invece, si vorrebbe continuare a succhiare il sangue purché siano garantite quelle posizioni di rendita che assicurano prebende importanti.
Quel che fa male in questi giorni di trattative è constatare la disinvoltura con la quale è stato possibile assistere a tutto e al suo contrario. E’ stato sufficiente che qualcuno, dopo l’ennesima batosta ricevuta, abbia avuto la possibilità di ritornare sulla scena, perché dettasse ai suoi gli “ordini di servizio”; e ciò che fino a quel momento poteva essere considerato oggetto di un confronto democratico si è tramutato, per magia, in un diktat, senza alcuna possibilità di mediazione, di un negoziato, mandando alle ortiche i fondamentali della democrazia.
Ora l’attenzione è tutta spostata sul Quirinale; da stamattina il “carteggio governo” è ritornato nelle mani del Presidente della Repubblica. Tocca a Lui prendere l’iniziativa anche se le strade da percorrere sono limitate; anzi la pratica sembra avviata verso un “senso unico”. A meno di un accordo tra i partiti in zona Cesarini, Mattarella avrebbe a disposizione alcune chance: da un “Governo del Presidente” come avvenne con Napolitano che diede l’incarico a Enrico Letta, ad un governo di “Larghe intese” tra tutte le forze politiche che però è già stato escluso da tutti, oppure un “Governo di minoranza” cioè con alleanze che vengono trovate in aula a seconda del provvedimento che si deve approvare. Tutto ciò è necessario se si considerano i prossimi appuntamenti che attendono l’Italia con il Parlamento Europeo dove dovrà recarsi chiedendo sinergie soprattutto per quanto riguarda lo spread che sta polarizzando l’attenzione di tutti gli altri paesi della Comunità le cui decisioni possono avere conseguenze devastanti per il nostro Paese.
Qualunque sia la scelta del Presidente della Repubblica è auspicabile che sia accompagnata da elezioni anticipate, comunque dopo che sarà varata una nuova legge elettorale per modificare quella in vigore che, a parere di tanti, fa il paio con il “porcellum”, come fu definita dall’ex ministro Calderoli che la propose, in modo da dare sicurezza e prospettiva all’Italia.
*giornalista
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