Come oggi moriva Peppino Impastato, nello stesso giorno di Aldo Moro. Sono quattro decenni dai due omicidi: l’uno di mafia, l’altro ancora discusso. Due figure diverse e assieme simili, dalla missione comune: la lotta politica, ideologica e reale alle diseguaglianze.
Ieri il Corriere della Calabria ha pubblicato una feconda riflessione di monsignor Vincenzo Bertolone, presidente della Conferenza episcopale calabra, sul venticinquesimo dalla visita di Giovanni Paolo II ad Agrigento, la mia seconda città. Lì, dopo le stragi di Capaci e Palermo, strade e spiagge, specie l’ambita San Leone nel “feudo” di Giovanni Brusca, erano presidiate dai militari, che sostavano con mitra affusolati in angoli e slarghi, bramando cenni d’ombra per gli umori della fronte. Giovani e fieri, rare volte distratti dalle nostre grida adolescenti. Allora i social erano nella vita quotidiana. Ad esempio nell’incontro spontaneo della sera davanti al «mare africano», di pirandelliana memoria: madri e figli coi compagni di avventure mitizzate alla luce infinita della Valle dei Templi. E, ancora: una funzione sociale aveva l’uscita dalla messa della festa: capannelli spontanei del vecchio Mezzogiorno.
Ho memoria nitida di quei giorni del ’93; l’anno prima la drammatica sequenza del Trattato di Maastricht, di Tangentopoli, delle bombe senza verità e della crisi della lira. Avevo 17 anni, mi trovavo in Sicilia. La voce polacca del papa risuonava per le vie agrigentine. Perfino nel silenzio estivo dei 36 gradi e passa che segnava il termometro nella stanza in cui dormivo da zia Pina, sorella di nonna Lia. In dialetto orgoglioso, calcato, identitario, gli amici ragazzini rammentavano il discorso del pontefice nello stadio Esseneto. A modo loro dicevano dell’evento dei mesi precedenti, proprio «ca», ma non collegavano Wojtyla alla caduta del Muro di Berlino, troppo lontano dal sud del Sud. Ne parlavano come di una benedizione perpetua. Le mamme li assecondavano, prima di cena. Una, la signora Rosetta, raccontava d’aver toccato la mano di quell’uomo tutto bianco. Poi si dispiaceva di non averla potuta baciare. «Nu santu», rimarcava enfatica e ferita dal martirio di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le vittime consorti.
Colsi una speranza forte e contagiosa: papa Giovanni il miracolo l’aveva compiuto per davvero, esortando i siciliani ad alzarsi. Fu, credo, il simbolo della pedagogia antimafiosa della Chiesa nell’estremo meridiano, che poi avrebbe visto, a Casal di Principe, in Campania, il sacrificio di don Peppe Diana, coraggioso e attivo come monsignor Óscar Romero, ammazzato a San Salvador per la testimonianza evangelica.
Ecco, nel suo scritto l’arcivescovo Bertolone ha centrato il primo punto per l’emancipazione collettiva. Le mafie non sopportano la pratica del Vangelo, cioè la carità contro l’ingiustizia suprema: l’arricchimento di pochi col sangue del popolo, derubato con violenza. A partire dalla Calabria, va amplificata e vissuta la lezione di Moro, di Impastato e dei morti per la loro stessa causa.
Grazie, monsignor Bertolone, per la direzione che ci ha indicato.
*giornalista
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