(…) essi sempre umili, essi sempre deboli,
essi sempre timidi, essi sempre colpevoli,
essi sempre sudditi,
essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere,
essi che ebbero occhi
solo per implorare,
essi che vissero come assassini
sotto terra,
essi che vissero come pazzi
in mezzo al cielo,
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo,
essi che credettero in un Dio
servo di Dio,
essi che cantavano ai massacri dei re,
essi che ballavano alle guerre borghesi,
essi che pregavano alle lotte operaie…
(Ali dagli occhi azzurri – P.P. Pasolini)
Quella che vogliamo raccontare è una storia infausta, una ferita sempre aperta, un resoconto amaro di una vicenda luttuosa. Per una volta, una soltanto, tralasciamo la mera analisi delle storture dell’accoglienza in Italia, per mettere al centro del nostro report una storia dal finale sbagliato, una tra le tante. Quelle che non troveranno mai spazio all’interno delle pagine dei quotidiani, perché in questa società ipocrita ci sono vite degne di essere raccontate, vissute, celebrate, piante e commiserate e altre che meritano di essere ignorate, trascurate, allontanate dai propri pensieri così come si scaccia un insetto fastidioso dagli occhi.
C’è un piccolo cimitero, a pochi chilometri da Reggio Calabria, il cimitero di Armo. Tra lapidi di migranti sbarcati in Italia, avvolti dentro a sacchi neri, in mezzo a croci senza nome e senza data, ce n’è una che porta il nome di Mamadou Kone. Mamadou aveva 20 anni. Era partito dalla Costa d’Avorio per curarsi in Europa. Quando aveva cominciato a stare male, sua sorella e i suoi parenti lo avevano convinto a intraprendere il “viaggio per la vita”, quello che dal suo paese lo aveva costretto a soggiornare in Libia prima di imbarcarsi per la terra promessa. Appena giunto a Tripoli era stato arrestato dai temibili Asma boys, uno dei gruppi armati più feroci in Libia, quelli che infliggono violenze continue all’interno degli speciali centri di reclusione, da sempre conniventi con i militari libici. In carcere era rimasto all’incirca un anno. “Quando è entrato in prigione era ancora forte e muscoloso, ma dopo 5 mesi non riusciva più a stare in piedi”, ci racconta il suo compagno di cella, triste testimone delle sevizie inferte a Mamadou, le stesse subìte anche da lui. Ci racconta di quella volta in cui legarono Mamadou a testa in giù a una trave di legno e con i cavi elettrici cominciarono a torturarlo sui genitali. Il posizionamento a testa in giù, in questo tipo di tortura, non è casuale: gli organi si comprimono verso le scapole, il sangue scorre verso il cervello amplificando il dolore, ogni secondo dura un’eternità, ogni attimo è una pillola di inferno nei sotterranei umidi e bui delle prigioni. Mamadou, ogni giorno più sofferente, resisteva alle sevizie dei carcerieri, mentre all’interno del suo corpo un male oscuro attecchiva ai suoi organi e lo divorava dall’interno. L’inferno dentro e l’inferno fuori! Intorno era odore di muffa, di urina e di feci, di sangue fresco e di ferite infette. Intorno erano ombre che si muovevano ondeggianti, fantasmi vacillanti, corpi nudi e sanguinanti abbandonati sul lastricato; corpi freddi, ormai cadaveri, da buttare via. Intorno erano urla terrificanti, soprattutto durante la notte. Quelle delle donne, nella cella vicina, stuprate dai branchi in mimetica. Quelle dei prigionieri appesi a un gancio come carne da macello. Intorno era il rumore dello schiocco delle fruste che colpiscono la carne, suoni che fanno accartocciare i muscoli e i nervi, un dolore che percorre il corpo arrivando al cervello, secondi lunghi un’eternità, durante i quali il mondo cessa di esistere.
«In carcere si entra con gli occhi nelle tasche», ci raccontava qualche tempo fa un ragazzo sopravvissuto alle sevizie e alla tortura in Libia. «L’orrore ti impedisce di guardare, di pensare, di muoverti in maniera razionale. Il tuo corpo comincia a tremare, ogni suono provoca un sussulto. Non sai quando né da quale direzione il colpo arriverà, dove ti farà più male, da quale parte del tuo corpo il sangue sgorgherà. Non sai se uscirai vivo dalla voragine infernale nella quale sei stato scagliato, né ad un certo momento vuoi più saperlo. Tutto quello che vorresti fare è dormire, far cessare i tormenti, chiudere gli occhi e non sentire più le grida né i suoni soffocati. Vorresti addormentarti e sentire le carezze della mamma sul tuo viso da bambino cresciuto troppo in fretta, sui tuoi occhi asciutti di lacrime, solchi vuoti e spenti. Allora sì, ti ricorderesti di averli custoditi in tasca, li tireresti fuori per indossarli nuovamente. Invece, al risveglio, è tutto immutato: gli scudisci, le scosse elettriche, le bruciature sulla pelle, le percosse sulla testa, le carni lacerate come vestiti strappati. E muori ancora, cento e mille volte».
Quando Mamadou aveva cominciato a stare male e i carcerieri avevano capito che non avrebbero potuto rivenderlo come schiavo ai libici che partecipano alle aste, avevano deciso di ammazzarlo. A quel punto, era intervenuto uno zio il quale aveva preteso che Mamadou venisse portato in ospedale, pagando una quota del riscatto. I medici libici avevano aperto il suo addome, verificato la gravità della malattia e ricucito in maniera grossolana il tutto. Non c’erano abbastanza soldi per pagare il costo di tale intervento, e poi, quanto vale in Libia la vita di un africano nero infermo e denutrito, infruttuoso e inservibile come schiavo? Dall’ospedale i suoi aguzzini lo avevano riportato in cella, in attesa che lo zio pagasse il resto del riscatto per la sua liberazione. Dalla prigione, una volta saldato il debito, era stato portato sul gommone stracarico di umanità in fuga dall’orrore. Il “viaggio per la vita” era iniziato, tra vomito, escrementi e puzza di carburante, tra il pianto disperato dei bambini e i piedi ustionati dalla benzina. Tra le onde alte di un mare in tempesta e le preghiere disperate. Tra mani che sbracciavano nell’acqua gelida del mare in inverno e corpi annaspanti.
Mamadou era giunto in Italia nella notte del 25 febbraio 2017, in gravissime condizioni di salute. Il taglio infetto e ancora fresco sull’addome e il fisico provato dalla lunga prigionia e da quel male incurabile che rispondeva al nome di colangiocarcinoma. I medici presenti allo sbarco, ci aveva raccontato Mamadou, avevano disposto il suo trasferimento in Ospedale ma, per qualche oscuro motivo, la Prefettura di Vibo Valentia aveva ordinato di portarlo all’interno del Centro di Accoglienza Straordinaria “Sant’Irene” di Briatico, gestito dall’Associazione Monteleone. Dal letto assegnatogli all’ingresso nel centro, non si era più mosso, Mamadou. Era rimasto per lunghi mesi immobile e sofferente a implorare, assieme agli altri migranti presenti nel centro, l’intervento di un medico. Solo dopo ripetute e pressanti richieste il medico era arrivato, ma gli aveva somministrato lo stesso tipo di farmaco utilizzato per tutti i migranti che lamentavano di stare male, secondo quanto riferitoci da Mamadou e dai suoi compagni di centro: una bustina di Oki, la panacea di tutti i mali! Solo in seguito a una protesta particolarmente intensa, gli operatori erano stati costretti a portare Mamadou presso l’Ospedale di Tropea, nel mese di giugno. Da Tropea, dopo avere constatato la gravità della malattia e il diffondersi di metastasi a tutti gli organi, i medici avevano disposto il trasferimento presso l’Ospedale Metropolitano “Bianchi Melacrino Morelli” di Reggio Calabria e da lì, qualche tempo dopo, lo spostamento presso l’Ospedale Civile “L’Annunziata” di Cosenza, nel mese di luglio.
Mamadou, i cui occhi erano lo specchio dei tormenti subìti, del supplizio che stava vivendo. Mamadou, che ci chiedeva con rassegnazione di tagliare i suoi riccioli neri per non assisterne alla perdita, conseguente ai trattamenti chemioterapici. Mamadou, che si sforzava di mangiare solo per cortesia verso di noi e che subito dopo vomitava tutto. Mamadou, piccolo ammasso di ossa tremanti e occhi neri come l’abisso. Mamadou, sorriso triste e brividi di freddo quando fuori c’erano 40°. Mamadou e il quadernino di appunti in cui raccontava il suo esodo, la sua malattia, le sue sofferenze, le sue ripetute richieste di aiuto all’interno del centro, le sue speranze, i suoi sogni. Mamadou e la triste litania quando gli spasmi erano particolarmente lancinanti: “Où tu es, Maman? Tiens-moi dans tes bras, Maman!”. Mamadou, venuto a morire in Italia. Mamadou, che a settembre si sarebbe spento all’interno di un Hospice a Reggio Calabria.
A un mese dalla sua morte, il 17 ottobre 2017, la Prefettura di Vibo Valentia, di concerto con il Viminale e con l’Anac, emanava un provvedimento di commissariamento nei confronti del centro di accoglienza nel quale Mamadou era stato abbandonato al suo destino. Il provvedimento traeva origine da una interdittiva antimafia nei confronti delle due cooperative che gestivano i centri di accoglienza di Briatico: “Monteleone Servizi” e “Monteleone 3.0 Protezione Civile”.
Il 22 Dicembre 2017, 3 attivisti della Campagna “LasciateCIEntrare”, rappresentati dall’Avvocato Santino Piccoli del Foro di Lamezia Terme, presentavano un esposto alla Procura di Vibo Valentia, volta ad accertare eventuali profili di illiceità penale e individuare possibili soggetti responsabili al fine di procedere nei loro confronti.
Nel mese di gennaio ci recavamo a Briatico con l’intenzione di monitorare la situazione relativa ai due centri di accoglienza gestiti dalla Cooperativa “Monteleone”.
Molti dei migranti presenti all’interno dei centri erano stati trasferiti qualche settimana prima all’interno del centro di accoglienza di Nicotera. Gli operatori con i quali ci eravamo fermati a parlare all’esterno ci avevano riferito che, secondo le disposizioni della Prefettura, il centro di accoglienza di Sant’Irene sarebbe presto stato chiuso. Avevamo incontrato alcuni migranti sulla strada statale che porta al centro. Alcuni, di ritorno dall’Ambulatorio Medico di “Emergency” a Polistena, ci avevano parlato dei disagi all’interno del centro, di servizi inesistenti, quale appunto l’assistenza sanitaria.
Intanto, Mamadou riposa nel cimitero di Armo. A ricordarlo, solo i suoi compagni della comunità islamica di Reggio Calabria e una manciata di amici che lo hanno accudito fino al momento in cui si è spento, in particolare la sua mamma di adozione. Non si muore davvero fino a quando qualcuno continua a ricordarsi di noi. Per questo motivo vogliamo che la triste e fragile esistenza di Mamadou venga ricordata, che rimanga una traccia del passaggio dei tanti Mamadou torturati, violentati, ignorati, ammazzati dagli sporchi interessi capitalistici di una società barbara e inumana!
Campagna LasciateCIEntrare
Delegazione costituita da Emilia Corea (Associazione “La Kasbah”), Luca Mannarino (attivista), Daniela Caprino (attivista), Yasmine Accardo (Ass. Garibaldi 101)
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