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«La politica come professione (e perché non funziona)»

di Ettore Jorio*

Pubblicato il: 10/05/2018 – 8:11
«La politica come professione (e perché non funziona)»

In un bell’articolo di qualche giorno fa, Enrico De Mita ha posto il problema della politica come professione. Un tema che, stante almeno alle promesse del divieto di andare oltre il secondo mandato, distinguerebbe gli attori oggi in competizione: di quelli del M5S (che però, ultimamente, sembrano volere abolire il divieto di non andare oltre il secondo mandato!) dal resto dell’offerta che i partiti propongono. Tutto questo pone qualche dubbio di non poco conto. Primo tra tutti, quello della contrapposizione tra la tesi negativista di Pietro Calamandrei (al riguardo si consiglia la lettura il libro pubblicato da Henry Beyle nel 2018 dal titolo, per l’appunto, «La politica non è una professione») e la realtà che si vive nel Paese, costretto a sopportare per decenni i vari Casini & Co. Una realtà che è sotto gli occhi di tutti e che ha fatto sì che venisse a generarsi – a cura degli interessati ma con la complicità dei partiti – non solo il mestiere di politico ma addirittura «un’impresa» da tramandare, acriticamente, a figli e finanche a nipoti. Una logica diffusa che, per il vero, ci starebbe tutta tra un dante e un avente causa di riconosciute qualità, così come alcune volte avvenuto. Il problema è che sono (ahinoi!) innumerevoli i casi ove è riuscito a divenire successore anche chi con difficoltà riesce ad intendere cosa sia la politica.
Carriere eterne fini a se stesse
Da qui, le carriere interminabili con al seguito gli altrettanti interminabili danni causati a quella collettività, tradizionalmente masochista, che ha consentito la perpetrazione di simili misfatti.
Tutto questo è venuto a materializzarsi per due significativi errori di ipotesi e una errata interpretazione dei compiti rimessi dalla Costituzione (art. 49) ai partiti.
Gli errori di ipotesi. Nel Paese si è generato il convincimento, accettato dal popolo che vota, che l’esercizio della politica fosse un lavoro vero e proprio, per l’appunto una professione/mestiere alternativo alle altre occupazioni. Una sorta di esercizio imprenditoriale ove impegnare se stesso «al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi», a tal punto da assicurare: un reddito elevato, un consistente «pensionamento» da aggiungere al godimento di altre forme garantite dal sistema previdenziale e un «avviamento commerciale» cui spesso far succedere i propri discendenti.
L’altro errore di ipotesi si è materializzato a seguito della trascuratezza delle regole, da parte di chi l’ha consentita per anni, nei partiti e fuori da essi. Di quelle che rappresenterebbero il presupposto per il corretto esercizio della politica ovverosia l’obbligo di assumere la consapevolezza dei fabbisogni dei propri rappresentati da soddisfare. Di quelle, ancora, che imporrebbero ai rappresentanti la conoscenza per deliberare coscientemente (Einaudi docet) in favore della collettività allo scopo di distribuire, soprattutto, un po’ di benessere a chi non lo ha mai goduto.
L’errata interpretazione. I partiti, cui la Carta riconosce la legittimità di concorrere alla determinazione della politica nazionale, sono diventati aggregazioni/azienda, in linea con la anzidetta trasformazione rappresentante/politico imprenditore. Una entità che fa riferimento al capo che ne determina il progetto in armonia ai desiderata dei propri sostenitori economici e al proprio sogno di generazione di profitto. Diventa, quindi, naturale la creazione di gigli di varia denominazione piuttosto che di impropri patti funzionali ad istituire delle vere e proprie joint venture strumentali all’acquisto di componenti organizzate delle coalizioni alle quale si riconosce (rosatellum docet) il diritto di concorrere per il governo nazionale e/o regionale (ma anche locale).
Il compito dei partiti (che però non ci sono)
A ben vedere, si è generata una politica fatta di partiti che hanno perso la loro originaria funzione di produrre progetti e leggi elettorali garanti della certezza di governo nonché di costituire un efficiente filtro alla selezione dei candidati. Una condizione che richiederebbe una trasformazione profonda che mandasse a casa i professionisti della politica e curasse la professionalità dei propri dirigenti e dei rappresentanti, tanto da rendere la loro azione capace di soddisfare la pretesa collettiva in linea con le esigenze di convivenza economica che l’Europa impone. Il modo per recuperare il vero senso della politica, i suoi profili etici e il corretto ruolo di chi occupa posizioni pubbliche.
Insomma, un ritorno ad un passato di qualità è realisticamente impossibile, intendendo per tale quello appartenuto ai Berlinguer e ai Moro. Ma la speranza a che i partiti, tradizionali o nuovi che siano, ce la possano fare deve essere presente nel capitale che ciascuno di noi ritiene di spendere, di mettere a disposizione per i figli, perché vivano un futuro migliore, più vicino – quantomeno idealmente – al nostro migliore passato.
In Calabria, a buon intenditor poche parole!

*docente Unical

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