REGGIO CALABRIA Una colata di cemento a bordo spiaggia, lungo una delle arterie periferiche più battute della città. Così si presenta il complesso Thalassa (in foto), accrocco residenziale nato alla fine dei primi anni Duemila a Contrada Armacà, in prossimità delle ville del gotha della ‘ndrangheta reggina. Ma in realtà – hanno scoperto gli uomini della Dia, coordinati dal pm Stefano Musolino – quello non è che un monumento allo strapotere dei clan che controllano Archi e Gallico, dove nulla si muove, nessuno costruisce, nessuno vende senza il permesso degli storici casati di ‘ndrangheta che lì hanno la propria base. Formalmente tirato su dalla Tegra costruzioni dei coniugi Pietro Zaffino e Annamaria Cozzupoli – società forse costituita appositamente per l’affare – per gli inquirenti il residence è stato in tutto e per tutto un affare di ‘ndrangheta.
L’OMBRA DI SCHIMIZZI Non a caso – sostiene la Dda – a gestirlo fino al momento della sua misteriosa scomparsa è stato l’allora reggente del clan Tegano, Paolo Schimizzi, che lì aveva intenzione di trasferire il proprio quartier generale. «Non a caso – fa notare il procuratore aggiunto Gaetano Paci – il cantiere si è fermato per alcuni mesi solo in corrispondenza con la scomparsa di Schimizzi». È stato Schimizzi per i Tegano, insieme ai fratelli Vazzana per i Condello – sostengono gli investigatori – a indicare i fornitori, la manovalanza, i subappalti, gli acquirenti. Una selezione fatta anche a suon di estorsioni e intimidazioni, pensata solo ed esclusivamente per tutelare gli interessi dei clan.
CENTRO SMISTAMENTO Per gli inquirenti, la Tegra altro non era che «una sorta di centro di raccolta di commissioni da smistare in favore di plurime ditte, espressione della `ndrangheta o riconducibili a soggetti prossimi alla stessa, le quali si sono occupate di vari aspetti dei lavori per la realizzazione ed il completamento del complesso immobiliare Thalassa». E ancora «la cabina di regia è la cosca Tegano, la Tegra serve solo a dare un volto presentabile, cioè a mascherare questa cabina di regia che opera sulla base di scelte concordate tra i vari clan della città e su diretto mandato di questi ultimi». E senza che i formali titolari dell’impresa abbiano mai fatto troppe resistenze. «I due amministratori sembravano persone irreprensibili» dice il nuovo capocentro Dia, Teodosio Marmo. Ma in realtà per la Dda, che li accusa anche di intestazione fittizia di beni, non erano che teste di legno. Per di più, perfettamente consapevoli che quello fosse un affare dei clan, o quanto meno troppo in odor di clan per dormire sonni tranquilli.
«CI ARRESTANO» Non a caso, l’architetto Zaffino, uno degli amministratori della Tegra, forse non casualmente – intercettato – si lascia sfuggire «ci arrestano secondo me». Insieme alla moglie era appena stato ascoltato dalla Dia riguardo fornitori e ditte in subappalto e alla consorte rimproverava di aver ammesso la presenza dei fratelli Vazzana, i nipoti del superboss Condello schermati dietro la ditta “Ideal bagno”, in cantiere. «Guarda che ora quando vedono che tutti i fornitori sono tutti quelli… di Archi, che succede?», le diceva preoccupato, per poi concludere «meno male che questo qua degli infissi… coso… di Crotone… almeno speriamo che non sono pure loro mafiosi».
EQUA SPARTIZIONE Un’eccezione stando a quanto emerso dall’indagine, perché l’intera realizzazione del complesso è stata equamente divisa fra i clan Tegano e Condello. E l’architetto Zaffino ne era pienamente consapevole. Non solo perché più volte – ascoltato dagli investigatori – non esita a definire “mafiosi” ditte e fornitori, ma anche perché – con quasi stupefacente candore – ammette la reale «il primo lotto l’ha fatto Vazzana, il secondo Firriolo». Peccato che sulle carte ufficiali dei progetti nessuno dei due abbia cittadinanza alcuna. In più– sottolineano gli inquirenti – non è un caso che gli amministratori della Tegra abbiano tentato di vendere in fretta e furia il residence dopo aver saputo da un’altra funzionaria comunale infedele delle indagini in corso.
FAVORI DOVUTI D’altra parte, spiegano gli investigatori, sebbene dalle indagini sia emerso che non tutti i guadagni relativi all’investimento dei coniugi Zaffino-Cozzupoli siano stati dichiarati e che i due avessero a disposizione dei conti criptati, solo l’ombra della ‘ndrangheta può spiegare una serie di comportamenti altrimenti palesemente antieconomici della Tegra e dei suoi amministratori. È il caso, ad esempio, della mancata riscossione dei crediti vantati nei confronti di Peter Battaglia, il funzionario “amico” che aveva concesso all’impresa una serie di autorizzazioni illegittime e in cambio aveva ottenuto condizioni agevolate per l’acquisto di due appartamenti. O ancora, del mutuo della moglie di Paolo Schimizzi acceso a nome della Tegra e – contrariamente a quanto dichiarato da Cozzupoli, insieme al marito amministratrice dell’impresa – sempre pagato da quest’ultima. A confermarlo c’è anche un’intercettazione registrata in famiglia, dalla quale emerge non solo che quelle rate sono sempre state pagate dall’impresa, ma anche che la banca ha sempre preteso che rimanesse a nome della Tegra «per garanzia perché sapevano che erano mafiosi».
CONCLUSIONI DIVERGENTI Tutti rapporti che avrebbero permesso ai formali titolari della Tegra non solo di mantenere la proprietà del residence e la facoltà di gestirlo, ma anche di lavorare senza problema alcuno, resistere alle pretese di altri clan, e beneficiare dell’intermediazione di uomini di ‘ndrangheta per la vendita di alcuni degli immobili. Per il pm Stefano Musolino, si tratta di elementi sufficienti per accusare i due amministratori della Tegra anche di concorso esterno in associazione mafiosa. Di diverso avviso è stato il gip, che ha rigettato la richiesta di arresto per i due, sottolineando che «i profili di vantaggio segnalati dal requirente non appaiono in grado di concretizzare quel ruolo che la giurisprudenza richiede sia conseguito per la configurabilità della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa». Discorso diverso per l’intestazione fittizia di beni, ampiamente provata anche per il giudice, che per questo ha disposto il sequestro della società. E non si tratta dell’unica. Sotto sigilli sono finite anche altre quattro imprese – Idea Bagno; Sam Edil; Costruzioni Edili; Costruzioni e progetti – per un valore totale di 11 milioni di euro.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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