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«I voti avremmo dovuto darli a Forza Italia»

Fabio Tranchina storico autista del boss Graviano è stato sentito a Reggio nel processo “‘Ndrangheta stragista”: «Se ne parlava già prima che nascesse». Poi racconta i viaggi in Calabria per incont…

Pubblicato il: 11/05/2018 – 16:24
«I voti avremmo dovuto darli a Forza Italia»

REGGIO CALABRIA Per aggiustare i processi, i palermitani bussavano in Calabria. E con i massimi vertici dei casati mafiosi avevano rapporti più che consolidati. A raccontarlo è stato Fabio Tranchina (nella foto), storico autista del boss palermitano Giuseppe Graviano, sentito oggi come testimone al processo “’ndrangheta stragista”.
AUTISTA RISERVATO Parente acquisito di Cesare Lupo, capomandamento di Brancaccio fino al suo arresto, ma mai formalmente affiliato, Tranchina era un riservato. Negli anni Novanta, di Graviano era autista e tuttofare ma in pochi sapevano della sua esistenza e del suo ruolo. Lo accompagnava alle riunioni, ai summit, nei covi dove si nascondeva, gli portava ovunque gli indicasse i soldi necessari per gestire la latitanza.
TAPPE CALABRESI PER GRAVIANO? «Ho accompagnato diverse volte Giuseppe Graviano agli imbarcaderi di Messina perché si spostava in treno per i suoi viaggi in continente – racconta – Dopo le stragi, questi viaggi sono aumentati». Se il boss si fermasse in Calabria o andasse altrove, Tranchina non lo sa dire. Il suo rapporto con Graviano era di tacita fiducia assoluta. «Per me – dice – il mio capo era Giuseppe Graviano, non c’era nessuno al di sopra di lui. E io a Giuseppe volevo pure bene».
COPERTURA BRUCIATA Quando il boss è stato arrestato, ha iniziato a svolgere le medesime mansioni per Tullio Canella, ma nel giro di poco la sua faccia e il suo nome sono diventati noti a troppi. Tranchina ha tentato di inabissarsi, ma per lui sono arrivati l’arresto e il carcere. Già all’epoca aveva pensato di pentirsi, salvo poi tornare sui suoi passi su pressione della moglie. Scontata la pena, ha tentato di tenersi fuori, di fare una vita “regolare”, ma negli anni Duemila, persino da dietro le sbarre il boss Graviano ha continuato a chiedergli “cortesie”. E alcune di queste hanno portato Tranchina in Calabria.
TARIFFARIO PROCESSI L’ordine era arrivato da Nunzia Graviano, sorella dei boss Giuseppe e Filippo, e per sua stessa ammissione nuovo capo del mandamento di Brancaccio. «Mi disse con la sua bocca che “da questo momento in poi ci sono io. E ci sono frasi che se vengono dette hanno significato inequivoco» ricorda il pentito. Le istruzioni erano precise: andare a Bova Marina, a casa di una non meglio specificata signora Vadalà a ritirare un messaggio. «Mi disse che per Giuseppe e per Filippo non si poteva fare niente. Per Benedetto la cosa era solo questione di soldi». È lì che Tranchina ha capito che si trattava di un processo da “aggiustare” grazie a contatti ed entrature della ‘ndrangheta reggina nei tribunali. «Era una cosa giudiziaria, di Cassazione» ricorda.
I SOLDI NON SONO UN PROBLEMA Probabilmente – racconta spiegando il ragionamento fatto all’epoca – si trattava del procedimento Golden market, che vedeva imputati anche i fratelli Graviano per decine di omicidi firmati dal gruppo di fuoco di Brancaccio, all’epoca arrivato di fronte alla Suprema Corte. I Graviano avevano rimediato condanne pesanti e la sorella Nunzia non ha badato a spese. «Per loro i soldi non erano un problema, stavano seduti sui milioni» dice il pentito, che più volte è tornato in Calabria per i pagamenti dopo aver recapitato il messaggio della Vadalà. Una prima tranche di dieci milioni, poi 20 milioni di lire al genero della signora «che aveva un ristorante lì su una collinetta». Consegne – racconta il pentito – che lo mettevano in difficoltà, anche perché – sottolinea – più volte durante quei viaggi è stato fermato e controllato dai carabinieri.
QUELLA VISITA A CASA DEL BOSS Ma questo non è l’unico episodio che testimonia i rapporti ombelicali fra i clan di Brancaccio e la ‘ndrangheta calabrese di cui Tranchina sia a conoscenza. Insieme al cognato, Cesare Lupo, il pentito ha fatto visita al mammasantissima Gioacchino Piromalli. «Partiamo da Melfi in direzione Sicilia – racconta Tranchina – Lupo va in permesso, eravamo tutti nella stessa macchina». A guidare era la moglie di Lupo, Bianca. «Eravamo in viaggio e lui ci ha detto che ci saremmo dovuti fermare a Gioia Tauro a casa di Gioacchino Piromalli. Cesare mi disse che era stato suo compagno di cella, si fidava molto di lui. Facemmo questa tappa e lo trovammo in casa». E nessuno dei coniugi Lupo ha avuto necessità di indicazioni per trovare la casa del boss. «La facciata era di cemento, come se ne vedono qua. Non era ancora stata fatta, dentro invece c’era un ascensore interno» racconta. «Siamo stati in una cucina al piano di sotto, alla presenza di una donna. Cesare si appartò con questo signore a parlare».
«VOTATE BERLUSCONI» Cosa si siano detti non è dato sapere. Tranchina solo molto raramente è stato destinatario delle confidenze di Lupo. «Non era quello il mio livello» spiega. Anche dai discorsi politici è sempre stato tagliato fuori, ma qualcosa l’ha saputo. «Ho sentito parlare spesso di Forza Italia – riferisce -. C’era la diceria che, nel momento in cui questo partito fosse sorto, i voti li avremmo dovuti dare a loro. Se ne parlava già prima che nascesse, perché era un anno, un anno e messo prima che mi arrestassero. Già verso la fine del 1993». Un’opzione sorta dopo la stagione di Sicilia Libera, una delle tante leghe regionali nate negli anni Novanta su impulso di clan, settori della massoneria e dell’eversione nera, che in Sicilia – è emerso dall’esame di altri collaboratori – sono poi confluite proprio nei nascenti circoli di Forza Italia. «In precedenza avevo sentito parlare anche della storia di Sicilia Libera, in riferimento a Tullio Canella». E poi aggiunge «ho sentito che la definivano una delusione». Poi si è iniziato a parlare di Forza Italia.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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