«Lo Stato non è un guaritore in queste terre. È solo un assistente al capezzale del moribondo». In queste parole, che Santo Gioffrè fa dire a Enzo, c’è tutta la drammatica condizione della Calabria.
La Calabria del matriarcato e delle faide, delle lotte studentesche e del dominio ‘ndranghetistico sull’Università di Messina, del tramonto del latifondo e dell’avvento della mafia imprenditrice.
Enzo Capoferro è lo sfortunato protagonista dell’ultima fatica letteraria di Santo Gioffrè, “L’opera degli ulivi” (Castelvecchi editore). E questa volta l’Autore ci tiene incollati alla poltrona, ansiosi di leggere d’un fiato, non con un nuovo romanzo storico, che pure ha caratterizzato fin qui lo scritto di Santo, ma con una testimonianza cruda e diretta del riaccendersi di una faida che lascia sullo sfondo gli anni delle lotte studentesche, gli amori giovanili più intensi, gli ideali di progresso e libertà. Anche lo scontro armato che tiene a battesimo perverse sinergie tra destra eversiva e cosche ‘ndranghetistiche della Locride, al riparo di un ateneo che la Commissione antimafia, anni dopo, definirà “un verminaio”, finisce con il diventare mero contorno del divampare della più ancestrale delle guerre: la faida.
Quanta tenerezza nell’amore tra Enzo e Giulia. Aveva un senso anche rischiare la vita nei quotidiani scontri tra manganellatori fascisti e illuse avanguardie di un proletariato pronto per la lotta armata. Santo utilizza ancora Enzo: «Il dolore accorcia la vita. Questa è la buon’ora per il nostro futuro: spingiamolo in alto, insieme».
Ben più aspra, meschina e sporca guerriglia assorbirà presto i protagonisti di quelle lotte studentesche. Le ragioni del sangue, le madri che invocano la vendetta ristoratrice, i fratelli che cadono e fanno cadere. La lupara che soppianta la P38. Un vortice di fatti, sentimenti, sensazioni che prima cattura e subito dopo stravolge anche il più attrezzato dei lettori.
È il libro di una vita per Santo Gioffrè. Ne siamo certi. Lo è perché mette insieme fatti caduti direttamente sotto la sua percezione e nell’ambito delle sue cognizioni. Non la faticosa ricerca dello storico, che pure ci ha regalato volumi affascinanti, come “Artemisya Sanchez” o il “Gran capitan e la madonna nera”, ma l’onesta ricostruzione di fatti che sembravano seppelliti nel tempo e invece sono molto più recenti di quanto non si possa credere. Al punto da produrre ancora effetti nefasti.
“Calabria, madre di poco amore…” scriveva una disillusa quanto brava poetessa reggina. Il romanzo-verità di Santo Gioffrè le fa, impietosamente, eco: «Hanno messo in campo le loro erbe maligne, gli hanno spaccato il petto all’innocenza. Glielo hanno ucciso, perché quando splende troppo il bello bisogno adornarlo di buio».
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