È accertata «la sussistenza di concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti ed indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata di tipo mafioso e su forme di condizionamento degli stessi». Per questo motivo il Viminale, sulla base delle conclusioni della commissione d’accesso che ha lavorato a Limbadi, nel Vibonese, ha chiesto e ottenuto dal Consiglio dei ministri lo scioglimento dell’amministrazione comunale del paese considerato roccaforte del clan Mancuso.
USO DISTORTO DELLA COSA PUBBLICA Dal lavoro dei commissari poi sintetizzato nella relazione del prefetto Guido Longo – si legge nella sintesi che il Viminale ha inviato al Consiglio dei ministri – è emerso come «l’uso distorto della cosa pubblica si sia concretizzato nel tempo nel favorire soggetti o imprese, collegati direttamente o indirettamente ad ambienti controindicati per l’esistenza di una fitta ed intricata rete di cointeressenze, amicizie, frequentazioni, che lega alcuni amministratori ad esponenti delle locali consorterie criminali o a soggetti ad esse contigui». Traduzione, uomini vicini o legati ai Mancuso che avrebbero avuto libero accesso alla cosa pubblica.
ECONOMIA INFETTA Lo dicono – si legge nella relazione – le innumerevoli operazioni della Dda di Catanzaro che «hanno evidenziato come tutte le più significative realtà produttive operanti su quel territorio siano dominate dal potere mafioso che annienta le libertà di iniziativa economica privata e inquina la gestione della cosa pubblica». Un territorio – sottolinea la commissione prefettizia – cui sono state strappate anche le risorse naturali, divenute «strumento di arricchimento e consolidamento del gruppo criminale e non fonte di benefici per la collettività».
SINDACO TRASCINATO A TESTIMONIARE E di quel gruppo criminale – si spiega – sono parte o sono molto vicini diversi sostenitori della lista capeggiata dal sindaco Pino Morello che, a detta dei commissari, avrebbe dato anche personalmente prova della capacità di assoggettamento da parte dei clan. Nel corso di un procedimento penale nei confronti della criminalità organizzata – spiegano i commissari – «affinché il primo cittadino – citato come testimone – si presentasse a deporre, è stato necessario disporre da parte del sostituto procuratore della Repubblica, l’accompagnamento coatto eseguito dalle forze di polizia».
INQUINATA LA GIUNTA, INQUINATA LA MACCHINA BUROCRATICA Uno degli assessori invece – ricordano i prefetti – durante la campagna elettorale del 2011 si è recato nell’azienda di un esponente apicale di una cosca, per chiedergli sostegno elettorale. Ne è nato un caso, mediatico e politico, ma l’attuale sindaco di Limbadi non solo lo ha candidato, ma lo ha persino chiamato in Giunta. Ma inquinato – si spiega nella relazione – sarebbe stato anche l’apparato burocratico, in cui compaiono non solo numerosi dipendenti «alcuni dei quali riconducibili per rapporti di parentela o frequentazioni ad ambienti criminali», ma anche soggetti con a carico «precedenti di polizia e penali anche per reati di tipo associativo».
APPALTI SU MISURA Un quadro che probabilmente ha indotto i commissari a non stupirsi più di tanto nello scoprire come il Comune abbia di fatto regolarmente operato in barba alla normativa sui contratti pubblici e in violazione della legislazione sulle informazioni antimafia. Non si contano «affidamenti diretti, cottimi fiduciari, proroghe di servizi disposti in favore di imprese riconducibili al locale contesto criminale e con la liquidazione di consistenti fondi pubblici». In alcuni casi, il Comune – si sottolinea – ha affidato i lavori direttamente ad imprese locali, senza alcuna preventiva ricerca di mercato, concordando direttamente con loro l’importo delle commesse. Imprese ovviamente vicine ai clan. È il caso dei lavori di giardinaggio, affidati per valori superiori ai 50mila euro ad una «società segnalata dallo stesso sindaco, i cui titolari sono gravati da pregiudizi di polizia e penali».
PIGRIZIE ISTITUZIONALI, AFFARI PER I CLAN Ma anche il servizio di mensa scolastica per l’anno 2015-2016 ha fatto riscontrare più di una anomalia. Il Comune – si spiega infatti nella relazione – «pur a conoscenza di alcune irregolarità nell’appalto non ha tempestivamente prodotto alla prefettura la documentazione necessaria per effettuare in tempo utile le prescritte verifiche e controlli, all’esito dei quali è stata emessa interdittiva antimafia». Morale, la ditta per un anno ha continuato ad operare, perché il provvedimento della prefettura è arrivato solo dieci giorni prima della regolare scadenza del contratto. Con la mensa non è andata meglio l’anno successivo, perché «sulla base di un atto di indirizzo della Giunta comunale è stato assegnato in affidamento diretto senza alcuna preventiva ricerca di mercato ad un’impresa individuale il cui titolare appartiene ad una famiglia composta da soggetti gravati da vari reati anche di tipo associativo».
ANCHE I RIFIUTI SUI CAMION DEI CLAN Zero controlli sono stati registrati anche sul servizio di raccolta e trasporto rifiuti. La società incaricata – dice il prefetto nella relazione – «ha utilizzato un veicolo di proprietà di un’altra società, destinataria di due interdittive antimafia, il cui titolare è persona gravata da pregiudizi penali ed è riconducibile ad ambienti criminali». «È altresì significativo – si sottolinea – che l’amministrazione comunale ha provveduto ad indire la nuova gara per l’affidamento del servizio in questione solamente il giorno antecedente la scadenza del contratto». In questo modo la ditta ha potuto operare indisturbata per altri sei mesi.
VICINI DISTRATTI Nulla poi – segnala la commissione – è stato fatto per contrastare gli allacci abusivi al servizio idrico, che «oltre a causare problemi di approvvigionamento per la popolazione residente, ha determinato mancati introiti per il Comune, che ha corrisposto, in favore della società che gestisce l’acquedotto, importi maggiori rispetto a quanto riscosso dai canoni idrici». Uno degli allacci abusivi era nella casa di un noto capoclan, situata accanto al palazzo comunale dove nessuno per anni sembra essersi accorto di nulla. Per accertarlo ci sono voluti i carabinieri.
TRIBUTI OBBLIGATORI MA NON PER TUTTI Ma l’acqua non è l’unico servizio per il quale a Limbadi in molti non pagavano. «L’organo ispettivo – si legge nella relazione – ha riscontrato infatti nelle attività di competenza del servizio economico finanziario un diffuso disordine amministrativo e l’assenza di interscambio di dati fra uffici amministrativi dell’ente, con inefficienze e omissioni nella riscossione dei tributi dalle quali hanno tratto vantaggio sia soggetti legati agli amministratori che appartenenti alla locale organizzazione criminale».
NECESSARIO L’INTERVENTO DELLO STATO Tutti elementi che hanno indotto il Viminale ad un giudizio lapidario. «Le circostanze, analiticamente esaminate e dettagliatamente riferite nella relazione del prefetto, hanno rivelato una serie di condizionamenti nell’amministrazione comunale di Limbadi volti a perseguire fini diversi da quelli istituzionali che hanno determinato lo svilimento e la perdita di credibilità dell’istituzione locale, nonché il pregiudizio degli interessi della collettività, rendendo necessario l’intervento dello Stato per assicurare la riconduzione dell’ente alla legalità».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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