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«Il "contratto di governo"? Mala tempora…»

di Antonino Mazza Laboccetta*

Pubblicato il: 21/05/2018 – 16:56
«Il "contratto di governo"? Mala tempora…»

Una volta c’era il «programma di governo». Espressione del c.d. indirizzo politico. Oggi c’è il «contratto di governo». I tempi sono davvero cambiati.
Nemmeno Berlusconi aveva osato tanto, quando nel 2001, accomodatosi nel salotto di Vespa, sottoscrisse il “contratto” con «i cittadini italiani». Era, però, un contratto tutto sommato innocuo, suggellato com’era dal tubo catodico. Anche in occasione dell’ultima tornata elettorale, Berlusconi, sempre nel salotto di Vespa, si è nuovamente obbligato, sottoscrivendo un «impegno con gli Italiani»: «[…] dopo la vittoria del centro-destra alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, a fianco del Presidente del Consiglio, il mio lavoro sarà creare posti di lavoro». Lodevole dichiarazione di intenti, che mostra lo zelo dell’uomo e la sua infaticabile e travolgente dedizione alle sorti del popolo italiano. Ancor più apprezzabili, ove solo si consideri che all’epoca dell’ultimo solenne «impegno» il Cavaliere non era stato ancora riabilitato. Si potrebbe dire: ma chi glielo faceva fare? Così è l’uomo.
Con i suoi contratti unilaterali Berlusconi voleva, in realtà, soltanto bucare lo schermo. Per presentarsi agli Italiani, da consumato comunicatore, come l’uomo che, a differenza dei politici politicanti, ha il coraggio di mettere nero su bianco la propria parola. E poi, soprattutto, la capacità di mantenerla. La trovata ebbe i suoi effetti sul piano propagandistico, e anche i suoi ritorni. E, però, sullo stesso piano tali effetti si esaurirono.
Non si può dire lo stesso del «contratto di governo» «tra il sig. Luigi Di Maio, nato a … e il sig. Matteo Salvini, nato a …, davanti a me Notaio…». È un «contratto» che pone problemi assai delicati. Non si tratta più di bucare lo schermo. Il rischio è di bucare la Costituzione. Il «contratto di governo» dei Nostri è un’idea che ha riflessi pericolosi sul piano (sostanziale) della legalità costituzionale.
Non a caso l’idea ha suscitato un vivace e attento dibattito tra i costituzionalisti e i giuristi in genere. E non sono pochi – e son di gran vaglia – quelli che arricciano il naso, per non dire di reazioni più virulente.
Pur rigida, la nostra Costituzione ha certo la capacità di leggere i mutamenti socio-economici e le trasformazioni politico-istituzionali, e poi di “recepirli” e guidarli, rimanendo sempre se stessa. Sottoposta ripetutamente ai colpi di maglio di molte tentate riforme, la nostra Carta ha saputo reggere, dopotutto, le trasformazioni e lo sviluppo del Paese dal secondo dopoguerra ad oggi. Ma è chiaro che, superato un certo limite, c’è il punto di rottura della legalità costituzionale.
Al di là del contenuto del «contratto di governo», più o meno discutibile nel merito (a mio avviso, “più” che “meno”), il lessico sottende una (ri)lettura del circuito democratico (sovranità popolare > parlamento > governo) che ne altera la forma e il normale (i.e.: costituzionale) dispiegarsi. E qui la forma è più che mai sostanza. Perché è in scena non un uso poco “sorvegliato” del linguaggio costituzionalistico, ma una vera e propria forzatura della dinamica politico-costituzionale che, vigente questa Costituzione, sta alla base del procedimento di formazione del governo. Che il premier possa essere ridotto a mero «esecutore» del «contratto di governo», suscita più d’una perplessità, a voler essere generosi. Che si arrivi poi a delineare un «comitato per la soluzione di questioni politiche che dovessero sorgere tra i contraenti o per questioni non previste dal contratto», è ipotesi che senza mezzi termini esautorerebbe il Parlamento dei suoi compiti. Non è forse il Parlamento il luogo della mediazione politica? Quando Craxi nel 1983 concepì il Consiglio di gabinetto, lo mantenne però all’interno dell’esecutivo. I Nostri, Salvini e Di Maio, ipotizzano addirittura una “sospensione” dell’attività di governo per dieci giorni in caso di controversie sull’esatta esecuzione del contratto o in presenza di eventi dallo stesso non previsti. E fanno del Comitato un organo che ha tutta l’aria di essere un organo extra-istituzionale.
Forse è il caso di tornare ai fondamentali. Proviamo, allora, a riavvolgere il nastro, e a rammentare come nasce il governo in una repubblica parlamentare, qual è (ancora) la nostra. Repubblica nella quale «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Eleggendo cioè il Parlamento. Nel Parlamento si esprime l’indirizzo politico: in altri termini, la visione del mondo e della società impressa con il (e al momento del) voto dal corpo elettorale (la volontà popolare – si badi – è dinamica, e cambia nel corso della legislatura. Ipotesi che determina “scollamento” tra corpo elettorale e Parlamento, e necessità di nuova legittimazione). I parlamentari si muovono «senza vincolo di mandato». Prendono decisioni. Tra le più importanti, quella di votare la fiducia ad un governo dopo un’elezione o dopo una crisi di governo. Chiaro, quindi, che il governo non viene eletto dai cittadini. È il Presidente della Repubblica che nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri (art. 92). La nomina del Presidente del Consiglio è preceduta dalle consultazioni dei gruppi parlamentari, finalizzata ad individuare la persona cui affidare l’incarico di formare il governo. Una volta individuata, il Presidente del Consiglio «incaricato» accetta, com’è prassi, «con riserva». Sondati i gruppi parlamentari, «scioglierà la riserva» una volta che avrà individuato le condizioni politiche per ottenere la fiducia del Parlamento. E si presenterà al Presidente della Repubblica con la lista di ministri, per poi chiedere al Parlamento la fiducia su un programma di governo.
Nel nostro sistema nessun governo «è (e può essere) eletto dai cittadini», non solo al tempo della «prima Repubblica», ma anche nella «seconda Repubblica», quando il sistema elettorale maggioritario ha indotto le coalizioni a presentarsi agli elettori con un «candidato premier» e con una «maggioranza predefinita» in caso di vittoria. Decisione, quindi, “tutta politica”, che, come tale, non scalfiva il procedimento di formazione del governo sopra sommariamente descritto. Per esemplificare, quando vinse la coalizione che sosteneva «Berlusconi premier», il Presidente della Repubblica incaricò il Cavaliere non in quanto “eletto dal popolo”, ma in quanto esponente politico in grado di raccogliere intorno a sé la maggioranza necessaria ad assicurare al suo governo la fiducia del Parlamento. La dinamica politica, innescata dal sistema elettorale maggioritario, non era suscettibile di intaccare il meccanismo formale alla base del procedimento di formazione del governo. Solo nella vulgata propagandistica dei partiti e in quella giornalistica cominciò ad invalere l’uso del termine «premier eletto dal popolo».
Dunque, il Presidente del Consiglio, al momento della fiducia, “riceve” l’indirizzo politico del Parlamento, e lo interpreta “dinamicamente” nell’attività di governo. Che non è tutta predeterminabile “a priori”. Il Presidente del Consiglio «dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile». Responsabile davanti al Parlamento, in cui trova espressione la volontà popolare, pur senza il vincolo di mandato.
L’idea del «contratto di governo» scardina l’assetto costituzionale che sta alla base della formazione del governo e dell’attività del Presidente del Consiglio e dei ministri: 1) introduce l’idea che il Presidente del Consiglio sia l’«esecutore» del contratto e non la figura che «dirige» la politica del governo; 2) introduce l’idea che il Presidente del Consiglio sia «responsabile» per violazione «contrattuale» davanti ai due contraenti (sig. Salvini e sig. Di Maio), e non responsabile “politicamente” davanti al Parlamento (che solo può negargli la fiducia che gli ha dato); 3) accredita l’idea che l’indirizzo politico possa racchiudersi ed esaurirsi nella rigidità del vincolo negoziale, senza tenere conto che la politica è continuo divenire. Di più, è governo del divenire; 4) inverte il meccanismo di costruzione del profilo del governo, facendo del Presidente del Consiglio “nominato” il terminale passivo della vicenda, quando invece il Presidente del Consiglio “incaricato” ne è l’attore principale. Per attore principale intendo la figura che è individuata come quella capace di costruire ed esprimere un programma di governo, di raccogliere intorno a sé una maggioranza, di dirigere la politica del governo e di mantenerne l’unità di indirizzo. Non certo la figura che subisce un contratto, di cui debba essere mero amministratore; 5) esautora il Parlamento della sua funzione di indirizzo e di controllo politico, oltre che di mediazione e di composizione dei conflitti politici, mortificandone il ruolo e la centralità nel sistema, più di quanto già non avvenga. Ancor più ove si consideri che il «contratto di governo» è sottoposto all’approvazione di un’arena tutta extra-parlamentare: ai gazebo leghisti e alla piattaforma pentastellata.
La logica aziendalistica è penetrata dappertutto, anche dentro l’amministrazione pubblica, pur con tutti i paletti, più o meno solidi. Ma che arrivi dentro la Costituzione e, per di più, in maniera così sgangherata, francamente suscita allarme.
La nostra Carta ha tenuto davanti ai tentativi di riforma condotti secondo le procedure legali. Non possiamo che augurarci che resista davanti agli attacchi illegali, più o meno consapevoli. Perché di questo si tratta: di capire cioè se c’è consapevolezza nell’uso del lessico e nell’azione istituzionale di soggetti che il Financial Times, certamente eccedendo nei toni, arriva a definire «barbari». Ormai «dentro la città», e non più «ammassati alle porte di Roma». Allarme, dunque. Ma nello stesso tempo fiducia nell’azione sapiente di Sergio Mattarella, che non a caso ha messo bene in chiaro, pur con la sobrietà che lo caratterizza, quali siano le «prerogative» del Presidente della Repubblica.

*docente dell’università Mediterranea di Reggio Calabria

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