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Viaggio nella mente di un «internato»

“Il fetido stagno”, selezionato per l’International Fringe Festival 2018, racconta la “vita” nell’ospedale psichiatrico di Reggio Calabria negli anni Ottanta. Un tempo lento in attesa della fine

Pubblicato il: 21/05/2018 – 11:30
Viaggio nella mente di un «internato»

REGGIO CALABRIA C’è un cigolio metallico che accompagna il buio in sala. Scandito, batte il tempo che attende. A intervalli, ma senza un ordine ben preciso, arriva il rumore di gocce d’acqua. Dalle poche luci soffuse sul palco, si riesce a distinguere una branda priva di materasso. Alla sua destra, un barattolo di latta. In maniera quasi speculare, dalla parte opposta, un gioco per bambini: un cubo in legno con le forme geometriche colorate. Si presenta così lo spazio de “Il fetido stagno”, nuova produzione firmata Teatro della Girandola/Compagnia Pagliacci Clandestini, scritto e diretto da Santo Nicito e interpretato da Lorenzo Praticò e Biagio Laponte. Lo spettacolo (potete vederne un momento nella foto di Giovanna Catalano), selezionato al San Diego International Fringe Festival 2018 (San Diego – Tijuana 19 giugno/1 luglio) è stato presentato in un’anteprima riservata alla stampa, sabato 19 al Teatro della Girandola di Reggio Calabria.
In una penombra tendente al buio, qualcuno gratta il fondo di un secchio. Il corpo ricurvo, rimane lì per un tempo che sembra eterno. Abituati al buio, gli occhi riescono a distinguere gli indumenti indossati. Nudo nel busto, l’uomo porta un paio di pantaloni chiari ma sgualciti ed è scalzo. Canticchia una filastrocca infantile. La voce è distorta e con difficoltà si riescono a cogliere le parole che pronuncia. «Sono qui da 20 anni e due mesi. Ho visto un contenitore di disperazione e tanti compagni portati via avvolti in lenzuola bianche». L’eco indica uno spazio vuoto e si conferma come solitudine dell’essere umano. Siamo all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Calabria, primi anni Ottanta. Guido – protagonista di tante storie –, ci accompagna in quei luoghi, dove tanto orrore è stato vissuto. Si tocca compulsivamente la base della nuca col braccio a coprire il volto, scavando nella testa per levarsi qualcosa, come nel quadro di Bosch l’”Estrazione della pietra della follia”, in cui il pittore fiammingo ritrae un medico nell’atto di estrarre la pietra della follia dalla testa di un uomo convinto che lì risieda la sua pazzia. «Internato» è il leitmotiv di queste prime scene. In una posizione di chiusura, l’attore (Lorenzo Praticò) rimarrà per tutta la durata dello spettacolo. Le braccia sono conserte, i piedi in spasmi da elettroshock, parla con la testa china e il suo linguaggio è modulato, tanto che le parole giungono all’orecchio contraffatte. Ma questo non conta: il corpo parla per lui. Nel suo curato lavoro performativo, la contrazione muscolare segue lo svolgersi della vicenda e la incarna. Il suo viso è scavato e sulla pelle porta i segni delle torture (il trucco è di Nadia Mastroieni). Gli occhi non guardano mai oltre, ma convergono come a voler indagare all’interno di sé. Ed è di questo che Guido ci fa spettatori: del suo vissuto in cui i ricordi e la fantasia – figlia di una follia indotta – si cedono il passo. A comporre la drammaturgia le luci (di Simone Casile) entrano in punta di piedi nel dolore del protagonista illuminandone solo alcuni particolari del corpo. Non violano ciò che si sta consumando in scena, piuttosto lo proteggono. 
I suoni e le musiche elettroniche sono eseguite dal vivo da Biagio Laponte, presente nella storia, ma non in scena: nascosto dietro un telo nero, abita nella mente del degente e da lì ne segue le emozioni: proietta l’ombra di se stesso, sonorizza gli oggetti; i movimenti della narrazione nel suo evolversi. La magra scenografia, si presta alla costruzioni di tanti luoghi, presenti in quella stanza ma anche altrove: la brandina diventa trincea/corridoio dietro cui nascondersi dai tedeschi (nei ricordi di un soldato impegnato al fronte), ma anche dagli infermiere che per sadismo, infliggevano torture ai “matti”. Portata come croce su cui ci si crocifigge, la rete divelta diviene il fardello che schiaccia o «un ariete pesante cento uomini» per una fuga dal manicomio. Non si racconta una storia, ma le storie di quanti sono stati internati in un manicomio, di chi è stato rinchiuso perché “diverso”, quando si dava valore al termine in base a chi ne ordinava il ricovero («L’unica differenza tra essere internati e non essere internati, è essere internati»).
Ma è forse il tempo il grande protagonista di questo spettacolo. Tempo che scorre lento. Tempo che vive di silenzi e lunghe pause. Tempo che si concede il suo tempo. Tempo che attende la morte come liberazione.

Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it

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