Il prossimo 24 maggio alle 17 l’Aula Alcaro (Cubo 28b) dell’Unical ospiterà la presentazione della raccolta di poesie “Attenti cadute metafore” (Donzelli, 2017) di Renato Nisticò (foto), che sarà arricchita da una lettura a cura della compagnia Scenari Visibili. L’iniziativa è promossa dal dipartimento di Studi Umanistici (cattedre di Antropologia culturale e di Letteratura italiana) dove Nisticò si è laureato e ha svolto attività didattica e di ricerca. E dove ha ambientato il suo romanzo “L’Arcavacante”.
Di seguito pubblichiamo uno scritto di Vito Teti tratto da “Terra inquieta” (Rubbettino, 2015) e, a lato nel testo, tre poesie tratte da “Attenti cadute metafore”.
Renato Nisticò, nel suo romanzo L’arcavacànte (2006), ha raccontato con ironia e sguardo nuovo la nascita della comunità di giovani, studenti, ricercatori, docenti: un intero mondo, che è sorto, con i suoi riti e le sue pratiche, intono all’ateneo di Arcavacata. Prima del 1978, l’anno in cui «l’Arca» è stata fondata, i ragazzi dei paesi calabresi, come Marco e i figli delle classi popolari, accostatisi con entusiasmo al sapere e all’istruzione superiore, erano costretti a completare la loro formazione nelle Università di Roma, del Centro o del Nord Italia, di Messina e di Bari.
Arca, ricorda Nisticò, è l’università «per gli studenti poveri della Calabria» che era «stata deposta sulle colline fra Rende e Cosenza, in località Vacata…». In questo non più luogo e non ancora luogo si incontrano, convergono, con aspettative diverse, studenti che debbono «laurearsi in tempo o sparire», docenti che arrivano da fuori, abitanti, sbigottiti e curiosi, dell’antica Arca. Arca allora è, almeno all’inizio, un deserto dove si è tuffata e si è immersa un’umanità giovanile che arriva dall’universo dei paesi, dove ritorna e a cui resta ancorata, ma da cui nello stesso tempo fugge. Arca è il luogo, la barca che accoglie i vacanti, quelli che si aggirano nel vuoto, nel tempo senza tempo, i desideranti, quanti chiedono insieme istruzione, sapere e spazi di libertà. Dai genitori, dal paese. Un’esplosione di vitalità e di voglia di fare. Un nuovo luogo nasce lentamente grazie a un’umanità camminante, errante, viandante, desiderante, arcavacante.
Sono passati molti anni dal periodo nascente di Arca, difficile, carico di entusiasmi e di tensioni, di rivolte e di amore, narrato da Renato Nisticò, che ha vissuto direttamente quel mondo, e molto tempo è trascorso anche dall’uscita del libro. Arcavacata è cambiata, anche profondamente, da allora, è cresciuta, vive le difficoltà delle università italiane e i molti problemi della regione. È cambiata come è cambiata l’Italia e come è mutato il mondo. I giovani di oggi faticherebbero a conoscere i loro antenati, i loro padri o fratelli fondatori. Sono nati e cresciuti gli atenei di Reggio Calabria e di Catanzaro che hanno cambiato paesaggio, saperi, aspettative, possibilità delle nuove generazione. La Calabria non è più la stessa grazie a questa e alle altre Università della regione. Il rimpianto, semmai, è che poteva essere ancora migliore e più innovativa se solo l’accademia fosse uscita con convinzione nel territorio della regione e non lo avesse visto come spazio di rapine e di scorribande e se la politica e i governi regionali non avessero avuto un rapporto a volte strumentale e clientelare, opportunistico, con molti esponenti dell’accademia che pensano più agli affari e ai finanziamenti che non a formare nuove e libere classi dirigenti e ad affrontare i problemi e le grandi questioni irrisolte di questa terra. Per altri docenti Arca è un luogo di passaggio, in attesa di «volare» altrove, un luogo dove prendere senza dare, dove costruire carriere da consumare altrove. Ma sono in tanti ad essersi innamorati di questo luogo, ad averlo adottato come loro nuova patria, e nei discorsi e nelle pratiche sono sempre più desuete quelle immagini negative, esotiche, pregiudiziali, piene di dolore e disagio che molti docenti e ricercatori trasferivano nei loro diari segreti. Sono in tanti a pensare questo luogo come un centro di sapere, di arrivi e di partenze, dove fare didattica e formare i giovani che domandano sapere e ascolto, anche con l’esigenza e il timore di chi capisce che il futuro non sarà facile. E sarebbe sterile e banale fare le solite distinzioni tra locali e forestieri, tra chi è rimasto e chi è fuggito, tra chi viene da vicino e chi arriva da lontano. Non basta la carta d’identità per poter creare nuove identità. Arca resta un luogo di speranze, arrivi e ritorni, passaggi e soste, conoscenze e conoscenza, per docenti e studiosi, e soprattutto per studenti che arrivano da tutte le parti della regione in quello che ormai assomiglia sempre più a un luogo con i suoi quartieri nuovi, con i suoi palazzi che spuntano ininterrottamente, con le speculazioni e la voglia di accogliere, con i suoi riti generazionali, con giovani che studiano e faticano, lasciano l’università e tornano nei paesi, si frequentano e creano legami, scambi e rapporti. Arca, che conosco, frequento, amo, detesto, riguardo fin dai primi anni Ottanta continua a stupire e mi pare l’ennesimo laboratorio in cui post-tradizione e post-moderno convivono. Le discussioni di tesi su grandi tematiche e su argomenti cruciali, che spesso diventeranno libri e apriranno piste di ricerche, avvengono in aule affollate dove amici e parenti dei laureandi seguono, applaudono, tifano, ridono, partecipano, si fotografano; dove genitori e nonni piangono e si commuovono per un risultato che vivono come riscatto familiare.
Arca, bella e amabile, incompiuta e ariosa, arcaica e moderna, isolata e viva come una grande metropoli, come la Calabria, in anticipo o in ritardo. Sempre fuori luogo, appesa, in attesa. Precaria, mobile. Ho visto spesso il peggiore paese, quello angusto e rissoso, trasferito nelle aule di Arca e ho visto un mondo in movimento. Ho visto paesi dove i giovani che tornano da Arca vengono risucchiati, assorbiti e catturati dalle antiche logiche, restituiti ai ricatti di posti dove domina il politico, il potente, il mafioso che ricatta e contagia. Ma ho visto anche giovani che tornano e innovano, modificano la tradizione, la rifiutano, inventano nuove tradizioni, nuove economie, nuovi lavori, dal basso, senza sostegno, in assenza di un progetto politico e di un’idea di futuro da cui sono lontani i gruppi dirigenti che non capiscono quanto sia conveniente, utile, doveroso cambiare, dare risposte, rifondare i luoghi, salvare il paesaggio, proteggerlo. Da Arca, ogni fine settimana, tornano i tanti Marco, che non sanno nulla dei lupi e degli anarchici narrati da Renato, ma che ne hanno ereditato inquietudine e desiderio di presenza, voglia di mutare il mondo, senso di radicamento e insieme desiderio di mondo.
*Antropologo e scrittore
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