Due magistrati calabresi alla guida delle due Direzioni distrettuali antimafia calabresi. È una notizia passata quasi sotto silenzio che, invece, meriterebbe qualche sottolineatura e qualche riflessione. Soprattutto con riferimento alla nomina di Giovanni Bombardieri a procuratore capo di Reggio Calabria. Era da decenni, infatti, che un reggino o comunque un calabrese non ricopriva tale incarico. In sostanza da prima del compianto procuratore Giuliano Gaeta, proveniente dalla Campania. A seguire ci sono stati solo magistrati siciliani (Catanese e Pignatone) e campani (Cafiero De Raho) quasi a statuire che, nonostante la specificità della ‘ndrangheta nel panorama delle mafie internazionali, non era bene che ad occuparsene fossero magistrati che avevano trascorso gran parte della loro carriera a contrastarla. Anche quando il potere politico e gli apparati deviati trovavano comodo svilirne il ruolo. Roba di paesani ignoranti, criminali protesi allo sfruttamento del territorio con sequestri e taglieggiamenti, qualcosa nel narcotraffico ma come piccola rete di spaccio.
Invece non era affatto così.
All’ombra di tale copertura, anche mediatica (persino i libri sulla ‘ndrangheta fino agli anni 2000 e salvo poche eccezioni venivano scritti da visitatori occasionali delle nostre contrade), sappiamo oggi, invece, che uomini della ‘ndrangheta erano coinvolti nei tentativi golpistici della destra eversiva. Che esplosivo della ‘ndrangheta verrà utilizzato in almeno due stragi nell’ambito della strategia della tensione. Che il tentativo massonico di mettere in piedi una rete di “leghe” locali per condizionare il potere politico venne tenuto a battesimo in riunioni segrete organizzate dalle logge di Lamezia Terme e Vibo Valentia. Che persino in via Fani, all’atto del rapimento di Aldo Moro e della uccisione della sua scorta, in mezzo ai brigatisti c’erano almeno due autorevoli esponenti della ‘ndrangheta aspromontana. Che negli agguati ai carabinieri che accompagnarono la “trattativa” dei corleonesi con lo Stato furono coinvolti uomini delle cosche reggine. E via ancora con un elenco capace di stendere un toro che solo abbia facoltà di leggere. Tutte cose distanti nel tempo ma mai opportunamente valutate. Forse era anche per alimentare tale sottovalutazione che nella stanza del potere che conta si decise di evitare accuratamente che le direzioni distrettuali calabresi finissero nelle mani “sbagliate”, magari proprio di gente che quelle verità ben conosceva e da lungo tempo.
L’operazione “Olimpia”, soprattutto nel capitolo dedicato all’eversione politica, aveva dimostrato quanto vicino fossero arrivati i magistrati reggini, nella fase in cui ebbero ampia libertà di azione, alla vera essenza della ‘ndrangheta che non era certo quella di attacco militare allo Stato, come mutuato da Cosa nostra. Bensì una costante e tenace opera di infiltrazione e condizionamento delle istituzioni democratiche. Da Alberto Cisterna a Nicola Gratteri, da Roberto Pennisi a Francesco Mollace, da Roberto Di Palma a Salvatore Boemi: le loro indagini, coordinate dal tandem Vincenzo Macrì-Pierluigi Vigna, all’epoca al vertice della Procura nazionale, arrivarono pericolosamente in alto, anche se in molti fanno finta di non ricordarlo. Sarà una coincidenza ma tutti i protagonisti di quelle inchieste ebbero, successivamente, rogne e pesanti delegittimazioni.
In ogni caso si andava teorizzando, nelle stanze del potere che conta, la necessità di tenere lontano i magistrati calabresi dalla conduzione delle procure distrettuali. Un procuratore generale arrivò a sostenerlo, senza remore, persino in sede di audizione davanti al Consiglio superiore della magistratura. E in effetti per lungo tempo si è riusciti “in brillantezza” (come ironizzerebbe “Zio Berry”) ad evitare che a dirigere le inchieste sulla ‘ndrangheta, in casa della ‘ndrangheta, ci fosse un magistrato calabrese. Un primo “assalto” venne respinto quando il Csm fu ad un passo dalla nomina di Vincenzo Macrì, viceprocuratore nazionale antimafia. Successivamente fu il turno di Nicola Gratteri, impallinato nel corso di una seduta del Csm che, in quanto a voltafaccia improvvisi, ricorda molto quella pagina non edificante scritta quando venne bocciato Giovanni Falcone dalla nomina a Consigliere istruttore.
Gratteri imparò la lezione e, successivamente, decise di rompere l’accerchiamento con una sovraesposizione mediatica che alla fine fece da blocco ad ogni tentativo immotivatamente contrario alla sua nomina a capo della Dda di Catanzaro. La nomina di Giovanni Bombardieri a procuratore capo di Reggio Calabria ne è la logica ed inevitabile conseguenza. Il che apre oggi la possibilità di una stretta collaborazione tra le due procure antimafia calabresi. Un coordinamento vero, serio, basato su una intesa solida anche sul piano operativo. Non è cosa da poco, visto che le sinergie tra le cosche reggine e quelle che operano nel Vibonese, nel Crotonese e nel Lametino sono pericolosamente cresciute in questi anni e combatterle con il rigido criterio della territorialità può essere davvero fuorviante.
Inoltre Bombardieri porta in dote, professionalmente, la lunga esperienza maturata dentro la Procura di Roma, prima di tornare in Calabria quale procuratore aggiunto di Catanzaro. Indagini su Finmeccanica ma anche sul riciclaggio internazionale gestito da una sempre pericolosa “borghesia nera”, giusto per fare qualche riferimento concreto, risulteranno oltremodo utili nell’approccio investigativo sui grandi casati di ‘ndrangheta con base a Reggio Calabria, Gioiosa Jonica, San Luca, Gioia Tauro. Insomma ci sono tutti i presupposti per una stagione dura, difficile ma anche fortemente strutturata, di contrasto alla ‘ndrangheta e questa, al di là e al di sopra delle legittime soddisfazioni per la nomina di un magistrato giovane e autorevole come Bombardieri a procuratore capo, appare com la principale notizia. Peccato (o meno male…) che in molti non sembra l’abbiano colta.
direttore@corrierecal.it
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