REGGIO CALABRIA «Cosa nostra decise di votare per Forza Italia perché, in quel partito, c’erano persone vicine a noi. I nomi erano noti, Berlusconi e Dell’Utri. C’era anche una persona nostra che aveva contatti diretti con loro, Vittorio Mangano». Storico uomo di fiducia e braccio destro di Leoluca Bagarella, anche Antonio Calvaruso afferma che nei primi anni Novanta, all’indomani della stagione dell’innamoramento leghista, le mafie si sono orientate sul partito di Silvio Berlusconi. L’ennesima conferma del quadro accusatorio costruito dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo con l’inchiesta “‘Ndrangheta stragista” che ha svelato come all’inizio degli anni Novanta le mafie tutte abbiano dato via ad una strategia eversiva mirata a imporre un governo amico. Una strategia complessa, in più fasi, ma con un unico sbocco.
SICILIA LIBERA E IL BOOM DELLE LEGHE REGIONALI Ascoltato come testimone, Carlvaruso ripete – in modo perfettamente coincidente e quasi pedissequo – che «verso la fine del 1993, inizi del 1994, ci fu l’idea di fare un partito, Sicilia Libera. Bagarella aveva dato incarico a Tullio Cannella di formare questo partito ed inserirci delle persone da lui indicate. Cannella, di fatto, era il segretario principale del partito. Questa idea avrebbe dovuto suscitare l’interesse di tutta Cosa nostra». Un partito nato per un motivo molto preciso «si doveva sistemare la situazione politica, perché si stavano dimenticando, non stavano facendo niente per il 41 bis».
ARCHIVIATE LE LEGHE Ma quel progetto viene messo da parte, perché – spiega Calvaruso – «nacque un altro partito non fatto da noi, Forza Italia, e Bagarella disse a Cannella di fermarsi perché i voti di Cosa nostra sarebbero andati a Forza Italia. Di questa indicazione Bagarella ne parlò con Mangano, Brusca ed altri». E Mangano, lo stalliere di Arcore, era uomo delle mafie. Anche il collaboratore lo ha incontrato per portargli un messaggio. «Ci andai con Michele Traina, gli portai un biglietto scritto da Bagarella. Agli appuntamenti successivi c’erano anche Nino Mangano, Bagarella e Brusca. Ciò avvenne nel periodo delle elezioni del 1994».
ELEZIONI SALVAVITA Ma lo stalliere ha anche rischiato la morte. Di personaggi “riservati” come Calvaruso ha rivelato l’esistenza. Poteva pagarlo con la vita. «Il cognato di Vittorio Mangano – dice il pentito – durante un matrimonio, si vantò di conoscere l’autista di Bagarella, cioè io. Questi si infuriò e mi ordinò di uccidere Mangano. Bagarella sosteneva che al cognato di Mangano solo quest’ultimo aveva potuto riferire la mia identità. Non la prese bene. Pedinammo Mangano che, in quel periodo, andava in un villino al mare e si scelse anche il posto per l’agguato. Poco prima di eseguirlo, però, Bagarella mi disse di aspettare perché Mangano poteva servirci per un discorso elettorale».
IL VERO CAPO DEI CAPI Calvaruso parla sicuro. È sempre stato l’ombra di Bagarella e il boss – afferma – dopo l’arresto di Riina è sempre stato il vero capo di Cosa Nostra. «Provenzano? Non era lui a comandare “Cosa nostra” dopo l’arresto di Totò Riina – spiega il collaboratore – A detenere il potere era Leoluca Bagarella». All’epoca, racconta il collaboratore, molte cose sono cambiate all’interno di Cosa Nostra. I Graviano sono stati messi da parte e Provenzano è rimasto una figura quasi simbolica. «Lo andavamo a trovare, gli portavamo dei soldi mensilmente, ma – riferisce il pentito – Bagarella non lo lasciava decidere. Neppure Messina Denaro, non se ne parlava proprio. Era sotto Bagarella».
DIVIDE ET IMPERA Era stato creato anche un gruppo di fuoco parallelo e segreto, composto da Mangano, Gaspare Spatuzza e Cosimo Lo Nigro. «Gli altri componenti del gruppo di fuoco di Brancaccio, quando succedeva un omicidio, non sapevano che a quel fatto avessero partecipato Mangano, Spatuzza e Lo Nigro. È stato possibile perché Bagarella era quello che comandava Cosa nostra». E questo all’interno di Cosa Nostra non piaceva. «Bagarella voleva mettere tutti contro tutti e non era visto bene da molti uomini di Cosa nostra, non condividevano il suo modo di fare». Eppure nessuno, ufficialmente, parlava. Perché la verità fra i cosiddetti uomini d’onore è sempre declinata a seconda dell’interlocutore.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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