REGGIO CALABRIA È una vera e propria valanga di condanne quella che per decisione del Tribunale di Palmi si abbatte sul clan Molè al termine del primo grado del processo ordinario dell’inchiesta Mediterraneo. Come già in abbreviato, i giudici hanno punito con estrema severità, capi, luogotenenti e picciotti dello storico casato mafioso della Piana, fotografati dall’inchiesta coordinata dal pm Roberto Di Palma in uno dei momenti topici della loro storia criminale. «Per la prima volta – sottolineava il gip nell’ordinanza di custodia cautelare – hanno dovuto accettare lo scomodo ruolo dei soccombenti e, dunque, si sono confrontati con la necessità di riorganizzarsi». Stritolato dallo scontro con i Piromalli, sotto la guida dello storico patriarca don Mommo Molè, il clan ha spostato affari e interessi a Roma, 600 chilometri più a nord, pur mantenendo saldi testa e interessi nella Piana, in attesa di una riscossa contro i vecchi alleati. Che non arriverà mai. Perché a partire da don Mommo, raggiunto da nuove accuse per associazione mafiosa, tutto il clan è stato nuovamente azzerato dagli arresti prima che riuscisse a ricomporre le fila.
CONDANNE E ASSOLUZIONI Per le lucide direttive impartite a nipoti e familiari, il vecchio boss rimedia ulteriori 6 anni di carcere che si aggiungono alla sentenza per mafia già rimediata e divenuta definitiva nel 2014. Undici anni e 6 mesi vanno invece a Manolo Sammarco e Giuseppe Salvatore Mancuso, mentre è di 9 anni e 6 mesi la pena inflitta a Giuseppe Galluccio, sfuggito dalle maglie del processo Tirreno per una serie di intoppi procedurali e raggiunto oggi da una condanna. È invece di 5 anni e 3 mesi la pena inflitta a Enrico Galassi, mentre 2 anni e 9 mesi vanno a Claudio Ruffa. I giudici hanno infine condannato anche Carmelo Bonfiglio (2 anni e 6 mesi più 8mila euro di multa), Mirko Di Marco (1 anno e 3 mesi più 1300 euro di multa) e Alessio Mocci (10 mesi più mille euro di multa, con pena sospesa). Incassano invece un’assoluzione Maria Teresa Tripodi, Massimo Modafferi , Claudio celano e Ferdinando Vinci.
L’INCHIESTA Una pronuncia che – al pari di quella dell’abbreviato – conferma in pieno l’impianto accusatorio dell’inchiesta, che ha immortalato il clan nella delicatissima fase di riorganizzazione seguita all’omicidio del boss Rocco, secondo gli investigatori ucciso nel febbraio 2008 per ordine degli stessi Piromalli, sotto la cui ala i Molè per lungo tempo hanno prosperato. A dare la linea su come il clan dovesse muoversi per uscire dall’impasse è lo stesso boss Girolamo “Mommo” Molè, che dal carcere di Secondigliano non esita a impartire precise direttive ai familiari nel corso di un colloquio registrato e valorizzato dagli investigatori.
LE STRATEGIE VECCHIE E NUOVE DEL BOSS Don Mommo ordina alla famiglia di allontanarsi temporaneamente da Gioia, verso Roma, senza dimenticare di tornare di tanto in tanto, e nel frattempo raccogliere i danari e le forze per una vendetta solo dimenticata. Ed ha continuato ad essere lucido anche durante il processo, nel corso del quale non ha esitato a lanciare attacchi pesantissimi al pm Di Palma, lamentando una vera e propria persecuzione nei suoi confronti. «Noi – gli ha risposto subito per le rime il pm – la trattiamo per quello che è, signor Molè. Un mafioso. E trattiamo i suoi figli per quello che sono, mafiosi. E questo non lo diciamo noi ma lo affermano diverse sentenze che vi hanno visti condannati». E poi ha puntualizzato, sapendo di toccare dove fa male «Lei, signor Molè, non è nessuno. È solo provato e toccato dal carcere ma non conta più nulla e questo lo sa anche lei».
LA COLONIZZAZIONE DI ROMA All’epoca dell’indagine però il boss – questo il sostituto procuratore lo ha spiegato in maniera chiara nel corso della requisitoria – continuava ad essere il vero cervello del clan. Che per suo esclusivo ordine ha spostato affari e interessi a Roma. Nel Lazio, i Molè si infilano subito nel fiorente business delle slot machine, di cui nel giro di breve tempo arrivano ad acquisire la gestione quasi monopolistica sul litorale romano, tra Roma e Ostia. Un’infezione mascherata in modo raffinato grazie alla joint venture di più imprese, tutte amministrate da Giuseppe Galluccio, che grazie a un sistema di telecamere riusciva a monitorare l’andamento di tutti gli esercizi commerciali dalla sua casa di Gioia Tauro. Un “grande fratello” criminale che evitava agli uomini del clan numerose trasferte e il rischio di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine con visite troppo regolari o frequenti.
ATTIVITA’ TRADIZIONALI Ma il nuovo business delle slot non ha indotto il clan a rinunciare a quelle che sono sempre state le attività tradizionali: il traffico di armi e di droga. Quintali di hashish e cocaina arrivavano al clan da tre distinti canali – Vibo, Albania, Marocco – per poi essere smerciati su Roma e provincia sotto l’attenta regia di Arcangelo Furfaro, l’uomo scelto dal clan per gestire la conduzione operativa delle attività di narcotraffico, monitorato da vicino dai due figli di Molè, Antonio (classe 89) e il fratello minore, come dai rappresentanti della cosca vibonese dei Mancuso, come il giovane Giuseppe Salavatore, figlio del boss Luni Mancuso, e del gruppo albanese. E la droga non era l’unico settore di business in cui i Mancuso e i Molè fossero partner. Il più giovane dei figli di don Mommo era infatti parte attiva della compravendita delle armi che venivano acquistate in provincia di Vibo Valentia, mentre erano l’armiere del clan Giuseppe Belfiore – ufficialmente semplice meccanico di Gioia Tauro – e il figlio Marino, ad avere aperto un canale di approvvigionamento con l’Europa dell’est.
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