Nel corso del passaggio politico-istituzionale che ha portato alla formazione del Governo Conte, molto si è discusso sul ruolo del Presidente della Repubblica nel nostro sistema costituzionale. Il dibattito è stato animato, e ha interessato gli studiosi, gli osservatori politici e, più in generale, l’opinione pubblica. Diversi i toni, gli accenti. E non concordanti i punti di vista. D’altronde, lo stesso Mattarella, dopo la rinuncia di Giuseppe Conte all’incarico di formare il governo, l’aveva previsto: «Ho atteso i tempi da loro richiesti (dal Movimento 5Stelle e dalla Lega, ndr) per giungere ad un accordo di programma e per farlo approvare dalle rispettive basi di militanti, pur consapevole che questo mi avrebbe attirato osservazioni critiche». «Nessuno – ha aggiunto poi il Presidente Mattarella – può, dunque, sostenere che io abbia ostacolato la formazione del governo che viene definito del cambiamento». Ha sottolineato pure di aver accolto la proposta di affidare l’incarico a Giuseppe Conte, «superando ogni perplessità sulla circostanza che un governo politico fosse guidato da un presidente non eletto in Parlamento» e rivendicando, al tempo stesso, di avere rappresentato sia al presidente incaricato sia ai rappresentanti dei due partiti, «senza ricevere obiezioni, che, per alcuni ministeri» avrebbe esercitato «un’attenzione particolarmente alta sulle scelte da compiere», perché convinto che sui decreti di nomina dei ministri, propostigli dal presidente incaricato, il Capo dello Stato debba esercitare «un ruolo di garanzia, che non ha mai subito, né può subire, imposizioni».
Proprio questo il punto.
Il ruolo del Presidente della Repubblica
Non c’è dubbio che il Presidente della Repubblica abbia il ruolo di «simbolo» dell’unità nazionale, e che non sia portatore di indirizzo politico: ne è conferma, tra le altre, la previsione secondo cui il Presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento in seduta comune, e non direttamente dal popolo; e, al riguardo, è assai significativa pure la prassi costituzionale che, da un lato, vieta candidature “ufficiali” alla carica e, dall’altro, impone che all’individuazione del profilo e, quindi, della scelta del Presidente della Repubblica si giunga all’esito di un’ampia e approfondita discussione tra le forze politico-parlamentari.
E, però, al di là della personalità che ciascuno riversa nel ruolo, il Presidente della Repubblica è figura – com’è stato autorevolmente detto – «a fisarmonica». Da «notaio» può diventare «reggitore dello Stato», perché i suoi poteri si ritraggono e si dilatano in funzione dell’esigenza di assicurare stabilità al sistema politico-costituzionale e al suo assetto democratico. In altri termini, quanto più sono solide e coese le maggioranze parlamentari, tanto più sono contenuti i poteri del Presidente della Repubblica.
Se guardiamo alla storia costituzionale del nostro Paese, non c’è Presidente della Repubblica (con l’unica eccezione di De Nicola) che, in modo più o meno accentuato, non abbia esercitato, a seconda delle condizioni politico-istituzionali, un ruolo di «mediazione politica». Come ha ricordato Mattarella, l’ha fatto Einaudi in un’epoca in cui la ricostruzione post-bellica imponeva politiche di stabilizzazione economica. Ma l’ha fatto anche Gronchi, favorendo l’apertura ai socialisti propugnata da Fanfani e il dialogo con l’Unione Sovietica e i paesi arabi sostenuto da Mattei; l’ha fatto Segni, in funzione di strategie di riassetto conservatore; l’ha fatto Saragat, incentivando il processo di unificazione socialista; l’ha fatto Pertini, ponendosi come punto di riferimento dei cittadini nella stagione buia e difficile del terrorismo e facendo sentire l’autorevolezza politica del ruolo del Presidente della Repubblica con il peso delle «esternazioni»; l’ha fatto Cossiga, con le sue “picconate” seguite ad un periodo di interpretazione “notarile” del ruolo di Presidente della Repubblica; l’ha fatto Scalfaro, che ha nominato il governo Amato in piena Tangentopoli, si è rifiutato di firmare il decreto-legge che prevedeva la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti, ha nominato il governo Ciampi senza quasi consultare i partiti, ha inviato una lettera a Berlusconi presidente del consiglio richiamandolo al rispetto dei principi costituzionali, di cui si faceva interprete e garante. Dopo le dimissioni del primo Berlusconi, si è rifiutato di sciogliere le Camere e ha affidato l’incarico di presidente del Consiglio a Dini, appoggiato poi in Parlamento da una maggioranza diversa da quella uscita dalle elezioni; l’ha fatto Ciampi, esercitando con il peso della sua indiscussa competenza un’attenta “moral suasion” e mantenendo la rotta europeista; l’ha fatto Napolitano, che ha imposto il Governo Monti in una situazione economica drammatica.
Mattarella e la formazione del governo
Venendo al Presidente Mattarella, gli si contesta di aver opposto un rifiuto alla nomina di Savona al Ministero dell’economia. Addirittura Di Maio è arrivato al punto di farsi corifeo di una richiesta – nei fatti, rivelatasi poi assai rocambolesca – di impeachment.
Un giudizio sul comportamento del Presidente della Repubblica lo si può esprimere valutando l’andamento della lunga gestazione del governo pentaleghista, che ha registrato ben cinque giri di consultazioni, due mandati esplorativi e due preincarichi (il primo a Giuseppe Conte, designato dal Movimento 5Stelle e dalla Lega, il secondo affidato al tecnico Carlo Cottarelli e poi tramontato).
Com’è noto, le elezioni del 4 marzo consegnano al Paese un quadro politico bloccato, che vede i 5Stelle primo partito, ma senza la maggioranza dei seggi, il centro-destra a trazione leghista in vantaggio come coalizione, anch’esso senza la maggioranza dei seggi, e il Partito democratico sospinto sotto il 20%.
Dopo il colpaccio di Salvini, che senza il consenso di Berlusconi, propone il nome di Anna Maria Bernini alla Presidenza del Senato, si schiudono le porte del dialogo tra Lega e Movimento 5Stelle. Berlusconi, fermo sul nome di Romani, lo considera un «atto ostile». È, però, la mossa che consente a Salvini di smarcarsi da Berlusconi e di cementare il blocco Lega-5Stelle, che porta Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati rispettivamente sullo scranno più alto della Camera e del Senato.
I primi due giri di consultazioni, in cui il centro-destra sembra presentarsi compatto davanti al Presidente della Repubblica, registrano una serie di veti incrociati (soprattutto tra Berlusconi e Di Maio), che consigliano al Presidente della Repubblica di affidare al Presidente del Senato un mandato esplorativo finalizzato a verificare la possibilità di formare una maggioranza tra le due forze politiche che hanno ottenuto più consensi: il centro-destra e il Movimento 5Stelle. Il mandato fallisce l’obiettivo. E il testimone passa, quindi, al Presidente della Camera, il cui profilo suggerisce al Presidente della Repubblica di sondare il terreno di una possibile convergenza tra Movimento 5Stelle e Partito democratico. Anche questo tentativo fallisce. Interviene, quindi, il Presidente della Repubblica, facendo valere, in una situazione di stallo che si trascina da ben 64 giorni, il peso delle sue prerogative. Dopo aver “accompagnato” il tentativo di formare le possibili maggioranze di governo, impone la sua linea: votare un governo “neutrale” che porti l’Italia ad affrontare gli imminenti impegni europei e la legge di stabilità per poi condurre il Paese ad elezioni nel gennaio 2019 oppure tornare al voto in estate.
Una linea che imprime un’accelerata, portando l’asse Salvini-Di Maio a riprendere i canali del dialogo. Il dialogo si concretizza quando, giunti al quarto giro di consultazioni con Lega e 5Stelle, Berlusconi concede il suo «passo di lato». Il quinto giro di consultazioni, necessario per presentare al Presidente della Repubblica l’intesa tra i pentaleghisti, porta poi al nome di Giuseppe Conte, cui il Presidente della Repubblica non si oppone. Il 23 maggio Conte accetta con riserva. Di qui la trattativa per la formazione della squadra di governo.
Il nodo Savona
È così che si giunge al “nodo Savona”. Salvini vuole Savona al Ministero dell’economia. Un economista non certo nuovo sulla scena politica. Formatosi al MIT, è poi passato dall’Ufficio studi della Banca d’Italia. Direttore di Confindustria, è stato tra i fondatori della Luiss. Presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi. Presidente di Impregilo. Ministro dell’industria del governo Ciampi, Capo del Dipartimento per le politiche comunitarie della presidenza del Consiglio dei ministri, ecc. ecc.. Insomma, non si può certo dire che Savona sia un arruffapopolo. È un’economista, che dopo aver attraversato diverse ere, esprime però posizioni critiche nei confronti delle politiche di austerità imposte dal Trattato di Maastricht. E non è assolutamente tenero con la Germania. Esprime perplessità sulla tenuta dell’euro. E immagina scenari di rottura della moneta unica. È uno che, ad un certo punto, spaventa i mercati. E i mercati sono quelli che comprano il nostro debito e sostengono la nostra spesa pubblica (spesa pubblica significa, tra le molte altre cose, i nostri stipendi, il nostro welfare)!
Attenzione: non è che le Cancellerie europee non abbiano il loro piano B nel cassetto (non è un caso che si senta parlare di euro a due velocità, et similia), ma non lo dicono in maniera così rumorosa come, ad un certo momento della sua vita, ha preso a fare Savona.
È chiaro che la posizione eurocritica di un autorevole economista come Savona, seppur espressa a livello accademico, renda impraticabile la via tenacemente voluta da Salvini. La sola ipotesi di Savona al Ministero dell’economia fa schizzare lo spread e aumenta, quindi, l’onere del servizio del debito pubblico, con conseguenze immediate e concrete sul risparmio individuale, sull’economia reale e sulla capacità di spesa sociale dello Stato. È intorno a queste conseguenze che si annodano i valori costituzionali di tutela del risparmio privato e pubblico, di cui il Presidente della Repubblica si fa interprete e garante quando rifiuta di firmare la proposta del Presidente di Consiglio di nominare Savona al Ministero dell’economia.
Poteva il Presidente della Repubblica rifiutare la nomina di Savona?
L’art. 92 Cost., secondo cui il Presidente della Repubblica «nomina» i ministri su «proposta» del Presidente del Consiglio, presuppone una collaborazione tra le due figure. Né il Presidente della Repubblica può «nominare» un ministro senza che vi sia la «proposta» del Presidente del Consiglio, né il Presidente del Consiglio può insediare un ministro senza che manchi la nomina del Presidente della Repubblica. E questo è abbastanza chiaro. Altro discorso è il ruolo di moral suasion che il Presidente della Repubblica, in determinate situazioni politico-istituzionali, può esercitare. Ma non è di questo che si vuol parlare.
E, allora, qual è il punto? Può il Presidente della Repubblica, come è accaduto nel corso del passaggio politico-istituzionale che ha portato al Governo Conte, rifiutare la proposta del Presidente del Consiglio di nomina di un ministro?
La risposta, a mio sommesso avviso, è no, se il Presidente della Repubblica rifiuta la proposta di nomina sulla base di motivazioni anche latamente politiche, in quanto egli non è portatore di indirizzo politico. La risposta è sì, se il Presidente della Repubblica, come in questo caso, rifiuta la proposta di nomina sulla base di valutazioni che presuppongano esigenze di tutela di valori costituzionali, quali il risparmio e la tenuta dei conti pubblici.
Certo, il confine tra valutazioni politiche e valutazioni costituzionali non sempre nella pratica è netto; anzi, il più delle volte è vero il contrario, poiché le valutazioni politiche possono essere di spessore così elevato da sfiorare il livello prettamente costituzionale. E, comunque, a presidiare questo confine c’è sempre il Presidente della Repubblica.
Non è uomo, il Presidente Mattarella, che non sappia quale sia l’ambito della sua responsabilità istituzionale.
Se un “rimprovero” gli si può muovere, è quello di non aver “nominato” il Presidente del Consiglio («il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri […]»), ma di aver “accettato” la figura di Giuseppe Conte, impostagli come «esecutore di un contratto» dal “duumvirato” Salvini-Di Maio. Ma la situazione politico-istituzionale era tale da non consentirgli altra scelta.
*docente dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria
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