CATANZARO «Dovremmo interrogarci su quello che succede nella sanità calabrese. La cosa non va assolutamente bene ed è doveroso da parte di tutti contribuire a migliorare questa situazione». Vittorio Lupis parla con un filo di voce. È stanco e alla fine della giornata è faticoso per lui parlare a telefono. Preferisce scrivere e quella che ci consegna non è solo una testimonianza, è la ferita aperta di migliaia di malati nella regione Calabria. Vittorio Lupis è un malato oncologico che conosce la sofferenza della malattia e il dolore, forse ancora più grande perché accompagnato alla frustrazione e all’umiliazione, del trattamento riservato a pazienti nelle strutture calabresi. È questo il primo aspetto che sottolinea nella propria lettera. Lupis è stato operato al coledoco e vie biliari al Policlinico Sant’Orsola di Bologna il 24 gennaio 2017 «da un eccellente e illustre medico calabrese il professore Bruno Nardo, medico che ha svolto la sua attività anche in Calabria e adesso è nel pool di un’altra eccellenza fuori dalla nostra regione. Di un’umanità e disponibilità incredibile al contrario di quanto constatato con almeno il 60% dei nostri medici, ai quali i pazienti formulano delle domande sulle loro patologie e quando fanno finta di non aver sentito rispondono senza nessuna voglia e senza un sorriso. Boriosi e presuntuosi. È proprio vero che i più grandi sono i più umili».
IL CANCRO E LE ESTENUANTI ATTESE Dopo l’intervento, fino a marzo 2018, il paziente, che vive a Olivadi, un paese di 500 abitanti in provincia di Catanzaro, ha fatto chemioterapia al Day-hospital oncologico dell’ospedale Ciaccio del capoluogo. È qui che Lupis ha incontrato ore di attesa infinite, a volte inutile, personale insufficiente, mezzi inadeguati e parecchio disagio. «Ebbene – scrive – in questo reparto i pazienti, fino a 3 mesi fa, arrivavano alle 5 di mattina per prendere il numerino, che qualcuno depositava nell’atrio, per cercare di fare un po’ prima. Attualmente sono invitati a presentarsi in un orario approssimativo che però non ha migliorato le tempistiche di attesa. Un ammalato oncologico prima delle 16 – 17 ed anche oltre non esce dall’ospedale. Non è normale che un paziente con problematiche oncologiche serie possa stare 6-7 ore buttato come un sacco nella stanza d’attesa».
«Ora, ovviamente io non saprei individuare in quale parte organizzativa si perde tanto tempo, una cosa però mi sento di dirla, con il numero di ammalati che cresce in maniera esponenziale i medici sono insufficienti, (anche se alcune volte lasciano il paziente nell’ambulatorio e tornano magari dopo 15-20 minuti) così come lo sono i lettini dove praticano la chemioterapia», scrive Lupis.
CHI PASSA AVANTI? «La cosa più grave è che quando arriva il tuo turno per andare a fare la terapia (sempre se le analisi vanno bene, altrimenti hai perso solo del tempo inutile nell’attesa che, credetemi, è più snervante della malattia stessa) arrivi nel reparto e trovi pazienti che hanno già finito tutto e non si sa da dove sono passati. Questo perché tu non li vedi né prenotare né nella stanza d’attesa. Chissà quale percorso fanno!». E se si prova a vincere le resistenze, e magari anche la stanchezza che ti farebbe soprassedere su tutto, e si prova a chiedere da dove spuntano quelle persone? «Qualche volta preso dallo sconforto – racconta il paziente – ho chiesto a qualche infermiere che ha fatto spallucce; “Signor Lupis, la prego!”. Sì, ci potrà essere qualcuno molto grave e bisognoso di più attenzioni e quindi lo faranno giustamente passare avanti, ma rimane lo sconforto perché non si tratta di uno!».
CALVARIO AL PRONTO SOCCORSO Il 15 maggio 2018 è stata una giornata che Vittorio Lupis non dimenticherà facilmente. Era stato dimesso nel primo pomeriggio dal reparto di Oncologia del Ciaccio, intorno alle 15:30 arriva a casa. «Dopo qualche ora – racconta – comincia a farmi male tutto l’addome. Resisto finché posso. Purtroppo il dolore continuava ad aumentare sempre di più, verso le ore 21,00 i figli insistono per andare al Pronto soccorso del Pugliese, ovviamente senza chiamare il 118 (altrimenti sarei arrivato dopo almeno 3 ore passando dal Pronto soccorso di Chiaravalle e Soverato). Intanto il dolore è alle stelle, insopportabile, indecifrabile. Arrivati alle ore 22,00 il Pronto soccorso si presentava come una bolgia infernale, chi urlava da una parte, chi si lamentava dall’altra (la normalità di un Pronto soccorso) e solo due medici a contrastare le emergenze. Dopo circa un’ora di attesa, dal dolore, credo, mi metto a vomitare e nessuno (pur avendo fatto presente e chiesto una bacinella) mi supporta se non con della carta assorbente, mia moglie non sapeva più come fare per evitare di farmi sporcare ma non è stato possibile. Mi sono dovuto cambiare tutto. Il vomito continua per quasi due ore idem con la carta. Alle ore 2:35 mi fanno entrare, mio genero e mia moglie raccontano ai medici cos’è successo e loro, nelle condizioni in cui mi trovo, non sanno cosa possono fare, se non mandarmi a fare un’ecografia all’addome per verificare il posizionamento dello stent che mi era stato inserito da sabato 12 maggio 2018 per drenare la bile, pensando che il dolore potesse essere causato da questo. Torniamo al Pronto soccorso, il medico a questo punto non sa cosa fare, mio genero chiede che mi venga fatta una dose di morfina per attenuare il dolore, ma il medico non si prende questa responsabilità con il rischio di causarmi un infarto e l’unica cosa che può fare è chiedere una consulenza in Oncologia dove mi avevano avuto in cura fino al pomeriggio di quel giorno. Chiamano l’ambulanza che arriva dopo circa 35 minuti. Arrivato in Oncologia il medico mi palpa l’addome affermando che non c’è nulla di rilevante, non sapeva cosa farmi, l’unica cosa era chiedere una diretta addome, io riferisco di aver fatto già un’ecografia e che avrei voluto che mi facesse passare quel dolore atroce che non sopportavo più. Il medico dal suo canto asserisce che ecografia e diretta addome sono due cose differenti e la cosa finisce lì. Nulla! Mi rimandano indietro e quando arriviamo la dottoressa del Pronto soccorso esclama “Ma non vi hanno fatto nulla? Vi ho mandato lì di proposito in quanto competenti e fra l’altro avendovi dimesso questa mattina la cartella ce l’avevano sotto gli occhi. Avrebbero potuto farle una dose di morfina nella quantità giusta”. Per concludere: sono arrivato con dolore 10 e sono tornato a casa con dolore 10. La dottoressa dice che non essendoci posti letto da nessuna parte mi avrebbe tenuto nel Pronto soccorso su un lettino in corridoio in attesa di un posto. Mio genero chiede dunque se rimanendo lì c’era possibilità di ricovero in Oncologia l’indomani ma il medico del Pronto soccorso gli risponde che nei 10 anni in cui lavora lì non sono mai riusciti a ricoverare nessuno. Io non so qual è la procedura attraverso la quale lo fanno. Mi fanno solo una fiala di Tachipirina e si ritorna a casa».
FATE QUALCOSA «I miei valori attualmente sono fuori norma. Non posso fare la chemioterapia. Sto facendo le cure palliative a Soverato, in attesa di una soluzione alternativa», spiega Vittorio Lupis.
La sua voce ogni tanto è interrotta da singulti ma lui non si ferma e racconta. Dice di avere lavorato nella sanità per 35 anni, nell’assistenza amministrativa dell’accettazione all’Asl di Chiaravalle. Dice che spera che quello che ha scritto possa servire, chiede che si continui a scrivere di Sanità. «Fatelo – dice – per tutti coloro che si trovano e si troveranno in questa situazione. Nessuno ne parla, forse hanno paura di ritorsioni».
L’appello a fare qualcosa è scritto anche nella sua lettera: «Questa mia riflessione ha come solo scopo quello di cercare di stimolare i preposti a migliorare il nostro servizio sanitario regionale calabrese che purtroppo fa acqua da tutte le parti».
DELUSO Vittorio Lupis ha lavorato all’interno della sanità, ha frequentato i sindacati. Ha votato e fatto votare per la compagine di centrosinistra ora al governo della Regione. Ma se ne pente, si sente deluso, come è deluso dai governi regionali precedenti – «da Loiero a Scopelliti ad Oliverio» – per quello che non hanno fatto. «Come tutti sappiamo due terzi del bilancio regionale, una cifra enorme, si spendono per la Sanità senza che a ciò corrispondano servizi di qualità e quantità adeguati al bisogno dei calabresi. Nonostante ciò, gli stessi sono fra i cittadini di tutta Italia che pagano le tasse più alte, dall’Irpef al bollo auto, e la cosa si aggrava sempre di più per i rimborsi alle altre regioni relative alle prestazioni che le stesse erogano ai nostri corregionali (nel 2017 se non erro oltre 300 milioni di euro, una cifra spaventosa). Tutto ciò per vedersi anche ridurre i posti letto, tant’è che le strutture non sanno dove ricoverare i pazienti, vedersi ridurre da anni i servizi con conseguenziale allungamento delle liste d’attesa a dismisura (effetto constatato sistematicamente ogni giorno dai calabresi) ed avere come effetto devastante quello di dirottare i pazienti verso strutture private, un’autentica vergogna, non rispettando i cosiddetti Lea (livelli essenziali d’assistenza) e quindi, costituzionalmente, un diritto quale è quello della salute».
Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it
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