«Abbiamo chiuso l’armeria dei clan». È del questore di Reggio Calabria Raffaele Grassi la sintesi più efficace dell’operazione “Arma cunctis”, che fra lunedì notte e martedì mattina ha portato all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 36 persone, tutte ritenute essere parte (o in rapporti) della rete che per anni ha rifornito i clan della Locride e non solo di pistole, fucili, kalashnikov e munizioni, mentre gestiva anche un discreto giro di produzione e spaccio di marijuana e hashish.
GLI ARRESTI In carcere sono finite 15 persone, fra cui Bruno Filippone e Giuseppe Arilli, considerati a capo della rete, 13 sono state messe ai domiciliari, mentre in 8 dovranno quotidianamente presentarsi all’autorità giudiziaria perché accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata al traffico di armi e di droga, detenzione illecita di armi clandestine e da guerra, più coltivazione di numerose piantagioni di canapa indiana e cessione di droga, prevalentemente hashish e marijuana.
RETE LEGATA AI CLAN E PRONTA A SODDISFARNE I BISOGNI All’interno della rete, scoperta dagli uomini della Squadra Mobile di Reggio Calabria e dei commissariati di Bovalino e Siderno, c’erano personaggi molto vicini ai clan Commisso di Siderno e Cataldo di Locri, ma a loro – emerge dalle carte – si rivolgevano anche “acquirenti” della Piana di Gioia Tauro. «Si tratta di un’operazione importante – dice il procuratore capo Giovanni Bombardieri – perché non è stato colpito il singolo armiere a disposizione di questo o quel clan, ma una vera e propria organizzazione contigua a varie cosche di ‘ndrangheta che riforniva ed esaudiva le richieste dell’uno o dell’altro clan».
ORGANIZZAZIONE SERVENTE Si tratta – spiega il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, coordinatore delle indagini sulla fascia jonica reggina – «di una rete molto vasta, in grado di autofinanziarsi e mette le proprie risorse, in questo caso le armi, a disposizione di altri. Quella che abbiamo individuato è una struttura collegata e servente alla ‘ndrangheta, un organismo di servizio». Un passo ulteriore nell’esatta comprensione della sempre in evoluzione struttura della ‘ndrangheta, dice Lombardo, che al riguardo sottolinea: «La scoperta di tale organismo significa non solo che la ‘ndrangheta continua ad avere un’enorme disponibilità di risorse e ad essere pericolosissima, ma anche che si avvale di strutture esterne ma ad essa serventi, che servono a gestire le relazioni con organizzazioni diverse».
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CANALI ESTERNI. ED ESTERI Quali, allo stato, non è dato sapere. Sul punto le indagini sono in corso, anche perché non tutte le armi di cui si è sentito parlare nelle conversazioni intercettate sono state individuate. «Spesso – dice al riguardo Bombardieri – è stato necessario intervenire con arresti in flagranza per evitare che armi pericolosissime entrassero nella disponibilità dei clan, ma questo ha reso difficile individuare i canali di rifornimento delle organizzazioni». Qualche traccia però c’è. «Abbiamo elementi precisi di alcune interlocuzioni, anche con l’estero». Alcune – sottolinea l’aggiunto – portano a Malta, altre – emerge dalle carte – alla Francia via Nord Italia, alcune – sembrano suggerire alcune conversazioni – alla Sicilia. «Ma abbiamo la certezza – si lascia scappare Lombardo – che quelle armi non fossero solo parlate».
INDAGINE CERTOSINA Si continuerà ad indagare, assicurano investigatori ed inquirenti. Ma era importante smantellare una rete che a quasi tre anni di distanza dalla richiesta di arresti, depositata nel 2015, continuava ad essere attiva ed operativa. A dimostrarlo «ci sono acquisizioni recentissime», tutto merito di un lavoro certosino degli investigatori. Per anni, gli uomini della Mobile e dei commissariati della Locride, hanno ascoltato, seguito, pedinato e osservato il gruppo e i loro acquirenti. «È stato un lavoro portato avanti con sacrificio, dimenticando turni, riposi, ferie» dice il capo della Mobile, Francesco Rattà, ma che ha permesso di carpire i segreti di una struttura che sapeva bene come coprire i propri rapporti e affari.
CAPICOLLI E BICICLETTE SECONDO TARIFFARIO Nelle conversazioni fra gli uomini del gruppo e i loro acquirenti le armi diventavano “capre”, “biciclette”, “auguri”, “pacchi”, “capicolli”, oppure semplici numeri identificativi del calibro o del modello. Tutte avevano un prezzo diverso, ma i più cari erano i kalashnikov «che – dice intercettato uno degli indagati – sono bellissimi, ma sono cari assai». Per un Ak-47 si dovevano sborsare almeno 2400 euro. In altri casi invece, anche la droga entrava nella partita. In un caso, ad esempio, un acquirente deluso ha accettato una partita di marijuana in cambio di una pistola ritenuta non soddisfacente. Nessun problema per la rete, che aveva a disposizione intere piantagioni di canapa, che dopo trattamento ed essicazione veniva venduta a spacciatori all’ingrosso, i quali si occupavano poi di distribuirla sul territorio.
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Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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