Abbiamo letto e apprezzato l’articolo di qualche giorno fa dell’avv. Francesco Macrì di Locri dal titolo «Qualche idea sullo scioglimento dei Comuni». Riprendiamo l’argomento al fine di sollecitare ulteriori utili approfondimenti, atteso che la Calabria, dall’insediamento dell’istituto nell’ordinamento, ha collezionato 105 scioglimenti comunali dei quali solo 9 annullati dal giudice amministrativo.
Non solo. Negli ultimi due anni, l’evento sta conseguendo record: a fronte di 12 scioglimenti nel 2017 se ne sono materializzati 7 nei primi 5 mesi di quest’anno. Alcuni disposti, tra il 2017 e il 2018, nei confronti di importanti Comuni – fra tutti: Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Gioia Tauro, Isola Capo Rizzuto e Cirò Marina – i cui cittadini hanno subito l’onta della mafiosità, alcuni dei quali addirittura per la terza volta (il comune lametino), sino a raggiungere il tetto assoluto di Platì con quattro scioglimenti da «vantare» nel proprio palmares.
Lo scioglimento rappresenta lo strumento, individuato dal legislatore 27 anni fa, per rimediare ad un esercizio del governo locale condizionato dalla criminalità organizzata e ad una conseguente precaria erogazione delle funzioni fondamentali assegnate ai Comuni (ma anche alle Province e alle Città metropolitane nonché alle Asp e Ao).
A ben considerare, è un istituto di carattere squisitamente sanzionatorio, posto a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della attività amministrativa locale, attuato con provvedimento comminato dal Governo in presenza di un obiettivo fenomeno di infiltrazione e/o condizionamento mafioso, tale da arrecare un grave pregiudizio agli interessi collettivi e da determinare la caduta di credibilità istituzionale dell’ente interessato.
Nei confronti del provvedimento relativo – per sua natura atto di alta amministrazione la cui caratteristica è rappresentata dal carattere ampiamente discrezionale relazionato all’accertamento e valutazione degli atti probatori, perfezionati a seguito di indagini, verifiche e controlli – può essere esperita, com’era ovvio che fosse, ogni tutela avanti al magistrato amministrativo, riferibile alla sua legittimità. Un gravame che ha prodotto sino ad oggi 25 accoglimenti con corrispondenti annullamenti degli scioglimenti disposti.
Il dopo scioglimento è preoccupante
Il lato che qui si vuole più cogliere è, tuttavia, quello che riguarda la fase successiva, ovverosia quella in cui lo scettro della gestione dell’ente locale passa dagli organi eletti ad una commissione straordinaria (art. 144 Tuel), composta da tre membri scelti tra i funzionari dello Stato, in servizio o in quiescenza, e/o tra ex magistrati ordinari o amministrativi. Un organo straordinario deputato a sostituire Sindaci, Giunte e Consigli, assumendone le rispettive competenze per la durata di 12/18 mesi prorogabili sino ad una durata massima di due anni.
La vigente disciplina consente di affondare il bisturi anche sull’apparato burocratico, siano essi dirigenti che funzionari, in presenza di condizionamenti e/o collegamenti degli stessi con la criminalità organizzata, tali da giustificare l’intervento nei confronti del segretario comunale, dei dirigenti e dipendenti di qualsivoglia categoria.
Insomma, lo scioglimento rappresenterebbe l’atto prodromico alla bonifica degli organi e apparati compromessi dall’inquinamento mafioso.
La difficoltà che viene ordinariamente a porsi è quella dell’efficacia reale dell’intervento sostitutivo, in termini di:
1) produzione dell’efficienza istituzionale (spesso da riportare a regime dopo l’accertato periodo di patimento criminale);
2) funzionamento amministrativo;
3) risanamento, qualora occorra, dei bilanci ereditati;
4) «igiene» sociale da concretizzare autenticamente nei rapporti con la collettività di riferimento (di frequente, vessata dal peso della malavita che ha condizionato le relazioni tra la Pa locale e cittadini, mediando ogni loro esigenza);
5) sollecitazione della partecipazione democratica tale da favorire la generazione di una buona classe politica cui affidare successivamente le sorti dell’ente a conclusione del commissariamento.
Dai dati analizzati a consuntivo emerge che nulla di tutto questo è stato sino ad oggi, ovunque, realizzato.
Invero, fatta eccezione per alcuni casi isolati, si è risolto poco o nulla con l’attuale formulazione che prevede un commissariamento fine a se stesso, consistente in un intervento impositivo di normalizzazione burocratica di breve durata, e quindi insufficiente, che non garantisce alcunché in termini di risanamento istituzionale e ambientale. Un compito difficile da realizzarsi senza la previsione di uno strumento/percorso pedagogico che generi concretamente cultura autenticamente democratica, consapevolezza delle scelte e che riesca a dimostrare ai giovani la pericolosità delle commistioni tra la società civile e il potere mafioso e tra questo e le istituzioni pubbliche.
E ancora. Che sappia ridare fiducia a chi l’ha persa verso la giustizia e le forze dell’ordine e creare certezze per il futuro, tali da rinunciare all’abbandono dei territori compromessi, ove mai impegnandosi in primo piano nel governo locale.
Un commissariamento, peraltro, soventemente affidato a funzionari dello Stato in trattamento di quiescenza che, ancorché con carriere di primo piano alle loro spalle, hanno perso la dimestichezza ovvero non hanno mai maturato la necessaria esperienza pratica con le problematiche riguardanti l’amministrazione diretta degli enti locali, non ultime quelle riguardanti le difficoltà di bilancio e di risanamento.
Una prospettiva collaborata e le sinergie necessarie
Ad una tale situazione occorre dare riparo affrontando seriamente il problema e risolvendolo con una apposita riforma che trasformi l’attuale strumento, della durata insufficiente e affidato a figure istituzionali per certi aspetti non sufficientemente professionalizzate ad hoc, in una misura strutturale che, nel rispetto dell’autonomia riconosciuta agli enti locali dalla Costituzione, riponga la gestione dell’ente in capo ad una sorta di «sindaco della Repubblica». Una specie di «prefetto di scopo» che sia espressione autentica di una Repubblica che tutela se stessa attraverso la cura delle sue istituzioni territoriali. Una figura pubblica cui, tenuto conto delle esigenze istituzionali primarie da garantire, affidare – nell’esercizio nell’art. 120, comma 2, Cost. – la cura del Comune ammalato di mafia, in quanto tale privato di sicurezza pubblica, di tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, negati alle collettività interessate.
Ciò con un ampio mandato quinquennale, tanto da consentire all’organo sostitutivo di portare avanti la sua opera di risanamento amministrativo e ambientale nonché di ripristino delle condizioni ordinarie di gestione ottimizzata della res pubblica locale, ma anche di risanamento dei rapporti tra cittadini e istituzione comunale e di assoluta vigilanza della collettività amministrata verso il fenomeno mafioso, da esercitarsi da parte della stessa anche successivamente alla scelta elettorale, da affrontare con la dovuta consapevolezza e ragionevolezza.
Decriminalizzare un territorio non è affatto un intervento semplice. Consta di una attività complessa che richiede una concreta sinergia tra le istituzioni interessate. Prima di tutto della Regione che deve imparare a «cullare» i comuni e le collettività colpite dal terribile evento, che allontana turismo e attrazione verso le imprese, per fare sì che i territori interessati si emancipino dal terribile fenomeno, magari ricorrendo a fondi comunitari finalizzati al nobile scopo. Occorrerà una grande esperienza amministrativa dei gerenti e una sensibilità sociale, esasperata a tal punto da trasformare il vivere civile del Comune occupato dalla criminalità organizzata. Un compito arduo in un momento nel quale la Repubblica, per la ben nota penuria di risorse, non ha quasi nulla da offrire in termini di incremento dell’occupazione giovanile, di garanzia assistenziale, di servizi pubblici e di sicurezza, che se realizzati rappresentano gli antidoti al veleno della criminalità organizzata. Quindi un obbligo ad individuare interventi speciali funzionali alla bonifica sociale e alla ripartenza dell’ente.
Su tutto si dovrà lavorare per fare in modo, così come sollecita da sempre il bravo Nicola Gratteri, che la cultura antimafia vinca sulla cultura mafiosa, per farlo occorre cominciare dalle culle (rectius, dalle scuole).
* docenti UniCal
Fatto salvo l’incipit, costituisce l’anticipazione di un articolo che uscirà su IlSole24Ore-Quotidiano degli EELL&PA
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