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«Lasciare la Calabria? Devono farlo gli 'ndranghetisti»

La storia di Rocco Mangiardi su Rai 1. Dagli anni dell’emigrazione a Torino fino al ritorno e agli scontri con i clan. «Per pagare il pizzo ai clan di Lamezia avrei dovuto licenziare un dipendente….

Pubblicato il: 06/07/2018 – 7:26
«Lasciare la Calabria? Devono farlo gli 'ndranghetisti»

LAMEZIA TERME Di una cosa è sempre stato convinto Rocco Mangiardi: «Ad andare via da questa terra (la Calabria, ndr) devono essere loro e non noi che li denunciamo». Una convinzione, questa, che ha accompagnato l’imprenditore, originario di Gerocarne, da sempre. Perché la sua storia si è incontrata e soprattutto scontrata con quella delle famiglie di ‘ndrangheta. Da Soriano, dove ha iniziato a lavorare, fino a Lamezia, dove tutt’ora porta avanti una delle attività più importanti della città. Il suo racconto è stato ospitato su Rai 1 in seconda serata nel programma di approfondimento Cose nostre. Cinquanta minuti circa per narrare la vita di Rocco Mangiardi, che si intreccia con quella della Calabria. Negli anni 60 la sua famiglia emigra a Torino per cercare quella fortuna che qui mancava ma con la promessa che prima o poi sarebbero tornati. «La nostra terra ci chiama», si erano detti i Mangiardi. Di nuovo in Calabria, decidono di mettere in pratica tutto quello che avevano imparato al Nord. Aprono un’autocarrozzeria a Soriano per «cercare di dare un lavoro a tanti giovani». E qui si scontrano per la prima volta con i poteri forti del territorio. È la fine degli anni 80 e nelle Preserre Vibonesi va in scena la guerra tra i Loielo e i Maiolo per conquistare un lembo di territorio. La paura inizia a farsi sentire quando l’attenzione dei Loielo si rivolge verso la loro attività, quella costruita con tanta fatica e con l’esperienza acquisita a Torino.
La vita di Mangiardi a questo punto prende una via e una città diversa. Si trasferisce a Lamezia per aprire una nuova attività ma anche qui il peso e l’oppressione della ‘ndrangheta non tardano a farsi sentire. Sono i primi anni 90, i clan Giampà, Cerra e Torcasio dominano, spesso in silenzio, la città. Poi arrivano gli omicidi e gli appetiti per la spartizione degli appalti. Cadono sotto il fuoco delle famiglie lametine vittime innocenti, come Pasquale Tramonte e Francesco Cristiano (i due netturbini uccisi sul lavoro, ndr); la mafia uccide anche il sovrintendente di polizia Salvatore Aversa assieme alla moglie Lucia Precenzano. Mentre il consiglio comunale viene sciolto per la prima volta per infiltrazione mafiosa, gli equilibri tra le cosce iniziano a saltare. Mangiardi inizia a conoscerli, perché la sua attività ha sede proprio in via del Progresso, il centro principale dell’approvvigionamento delle cosche attive nelle estorsioni. La paura lo accompagna, ma lui resiste. Nei primi anni 2000 gli equilibri all’interno dei clan lametini vengono di nuovo messi in discussione: i Giampà si scindono dai Cerra e dai Torcasio, diventando la cosca egemone. Che le estorsioni siano diventate il terreno di scontro tra i clan, Mangiardi lo scopre subito quando qualcuno gli dice: «Devi dare un pensierino a zio Pasquale (Giampà detto “Millelire”, ndr)». Un pensierino che significava 1.200 euro mese. «Per me voleva dire licenziare uno dei miei dipendenti che lavorava onestamente, un padre di famiglia», ricorda Mangiardi. La scelta, in seguito a questa richiesta, non fu difficile: lui e i suoi cari sapevano da che parte stare. Furono i primi a denunciare in via del Progresso. «Sono stato il primo e l’unico all’epoca – dice l’imprenditore –, ma da solo non posso liberare tutti». Da lì ha inizio la collaborazione con le forze dell’ordine, la “trappola” per incastrare i Giampà e le testimonianza in aula. «Ricordo che quando puntai il dito contro Pasquale Giampà – prosegue nel suo racconto –, lui divenne così piccolo che non sapeva dove guardare».
Mangiardi, a distanza di qualche anno, continua ad abitare a Lamezia e portare avanti la sua attività. Spesso gli capita anche di andare nelle scuole e parlare con i ragazzi. «Io li istigo sempre ad arrabbiarsi quando gli adulti gli dicono che il futuro è nello loro mani. Se fosse stato veramente così avrei dovuto pagare quei “pensierini” e lasciare il problema nelle mani dei miei figli. E invece questo futuro lo dobbiamo cambiare insieme. Perché – conclude – se ce l’ho fatta io, ce la possiamo fare tutti».

Adelia Pantano
a.pantano@corrierecal.it

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