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«Venti mesi per avere (finalmente) il nuovo giudice costituzionale»

di Ugo Adamo*

Pubblicato il: 20/07/2018 – 18:55
«Venti mesi per avere (finalmente) il nuovo giudice costituzionale»

È stato eletto dal Parlamento in seduta comune il nuovo giudice della Corte costituzionale. È Luca Antonini, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Padova, il nuovo inquilino a Palazzo della Consulta e con la sua elezione il massimo organo di garanzia costituzionale trova (finalmente) la sua composizione completa, che è di 15 giudici.
Se si saluta con favore la recente elezione avvenuta nel quarto scrutinio del nuovo Parlamento in seduta comune, non si può tacere, d’altra parte, sulla circostanza che le Camere riunite (la scorsa Legislatura si è chiusa con cinque scrutini ‘andati a vuoto’) hanno impiegato ben 20 mesi per sostituire il giudice Giuseppe Frigo, dimessosi il 7 novembre del 2016. Difficile pensare – ed infatti non lo si fa – che anche questa volta (si ricorda che la XVIII Legislatura ha avuto inizio lo scorso 23 marzo) i ‘tempi’ dell’accordo politico non abbiano dettato quelli dell’adempimento a un obbligo costituzionale; mentre dovrebbe essere il tante volte richiamato principio della leale collaborazione tra poteri ad ispirare il comportamento degli organi costituzionali. Non è un caso, quindi, che si sia raggiunta la quadra nello stesso momento in cui si è calendarizzata la votazione per l’elezione di otto componenti il Consiglio superiore della magistratura.
Quindi anche questa volta nihil novi sub sole; ma se da sempre la politica partitocratica ha condizionato la tempistica dell’attuazione costituzionale, questo non significa che non sia doveroso mettere in luce la ‘scorrettezza’ istituzionale che si è consumata nella mancata elezione di un giudice entro il termine richiesto dalla legge, che è di trenta giorni dalla cessazione della carica del magistrato da sostituire.
Nel 2018 ricorrono i primi settant’anni della Carta costituzionale e già dal 1956 (anno di inizio dei lavori della Corte) – in tema di composizione dell’organo di garanzia costituzionale – il ritardo delle ‘nomine’ di derivazione parlamentare è stato costante. In tutti questi anni, a differenza del Presidente della Repubblica (a cui spetta la nomina di cinque giudici) e delle Supreme magistrature ordinaria ed amministrative (a cui spetta l’elezione di altri cinque giudici) più celeri nell’esercizio del potere loro gravante, il Parlamento in seduta comune (a cui spetta l’elezione del rimanente terzo) è sempre stato in ritardo nell’espletamento del compito di eligente che costituzionalmente (e, quindi, obbligatoriamente) gli appartiene, tanto che, ormai, il suo adempiere ritardatario è divenuto notorio.
Il Parlamento riunito in seduta comune, non conformandosi al principio costituzionale della leale collaborazione, è rimasto troppo spesso indifferente al rischio di compromettere il buon funzionamento della Corte costituzionale, in quanto solito a non provvedere all’elezione del/i giudice/i cessato/i dalla carica nei 30 giorni dettati dalla l. cost. n. 2 del 1967.
Con il trascorrere degli anni e delle Legislature si è vieppiù palesato il dato fattuale per cui i tempi della politica non sono soliti rispettare quelli costituzionali. Dal dato storico si evince chiaramente che il problema dei ritardi ha riguardato il solo Parlamento in seduta comune, anche a causa delle alte maggioranze richieste per l’elezione di ogni singolo giudice. Quest’ultima prescinde sempre dalla maggioranza semplice ovvero assoluta, ed infatti anche per gli scrutini successivi al terzo è richiesta una maggioranza che – benché meno elevata rispetto a quelle precedenti – è pur sempre qualificata; essa è più elevata, addirittura, rispetto a quella richiesta per l’elezione del Presidente della Repubblica, almeno dopo il terzo scrutinio: «[i] giudici della Corte costituzionale che nomina il Parlamento sono eletti da questo in seduta comune delle due Camere, a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea», così l’art. 3 della l. cost. n. 2 del 1967. Dal dato costituzionale rilevano due indicazioni: lo scrutinio segreto, che libera il parlamentare/elettore da logiche partitistiche e quindi da influenze eterodirette, e le elevate maggioranze richieste, che tendono ad escludere derive partigiane.
Queste ultime, d’altronde, sono esplicitamente rifiutate dalla Costituzione: la trasposizione in Corte dei concreti rapporti di forza parlamentari, infatti, non è prevista a differenza di quanto avviene per altri organi, ai quali non deve essere assicurata indipendenza di giudizio (si pensi alle commissioni permanenti, a quelle d’inchiesta o ai delegati regionali da designarsi per l’elezione del Capo dello Stato). La funzione di quorum così elevati è quella di spoliticizzare al massimo l’elezione ovvero di politicizzarla in modo equilibrato.
Ma è opportuno a questo punto chiedersi se il ritardo parlamentare può essere imputabile solo ed esclusivamente alle alte maggioranze richieste. Una risposta affermativa rischia di essere tacciata di miopia. Il verificarsi dei ritardi pare piuttosto derivare dalla torsione politica a cui l’elevata maggioranza è sottoposta e dietro la quale si nascondono altre ragioni. Per comprendere la causa del continuo ritardo in cui incorre volutamente il Parlamento in seduta comune, è necessario sottolineare il fatto che questo è quasi sempre, appunto, voluto. L’unica ragione che spinge i diversi gruppi parlamentari ad utilizzare il tempo sine die a proprio vantaggio è che più si ‘sfora’ il termine ordinatorio (se non lo si rispetta non vi sarà alcuna sanzione) maggiore sarà la forza parlamentare del singolo gruppo nel portare avanti (favorendola) la candidatura da esso caldeggiata. Accrescendo il ritardo aumenta la capacità persuasiva/dissuasiva della volontà dei gruppi parlamentari. Quest’ultima aumenta quando si fa sempre più concreto il rischio di blocco dell’istituzione (il funzionamento della Corte richiede la presenza di almeno 11 giudici), dal momento in cui anche le forze minori potranno incidere sull’elezione.
Tralasciando – o comunque non prendendo in considerazione – il fatto che i componenti eletti della Corte costituzionale sono al riparo da possibili influenze del mondo politico (alta retribuzione, incompatibilità, immunità, durata del mandato, non rieleggibilità, mancanza della dissenting opinion) dal quale ‘staccano il cordone’ lo stesso giorno del giuramento quando diventano giudici alla pari di tutti gli altri, pare che ciascun gruppo parlamentare si prefigga comunque l’obiettivo di determinare o un cambio o un congelamento giurisprudenziale attraverso la tempistica della designazione (a buon fine o impedita) di magistrati che, condizionando la composizione della Corte, possano incidere sulla sua giurisprudenza.
Per raggiungere tale risultato ogni forza politica presente in Parlamento è ben disposta a utilizzare tutto il tempo ritenuto necessario, finanche procedendo con ritardo enorme all’elezione.
In questo scenario, maggiore è la dilazione in cui si incorre più elevata è la possibilità di un risultato politico favorevole. Ma sta proprio qui il problema: la politica non può piegare il testo costituzionale (precettivo) ai propri fini e alle proprie risultanze, ma dovrebbe essa stessa attenersi al disposto costituzionale. Ciò vale anche se si pensa che la situazione in cui la Corte è costretta a lavorare a ‘ranghi ridotti’ non è certamente meno grave rispetto a quella in cui non riesce del tutto a farlo. Infatti, il primo valore violato da un Collegio incompleto (anche per una sola cessazione non seguita da celere elezione, ed è quello che è recentemente accaduto per quasi due anni) è lo stesso che è alla base della previsione del quorum strutturale. La Corte non è messa nelle condizioni di espletare la sua funzione grazie all’apporto di tutte le (diverse e diversificate) qualità (tecnico-giuridiche, politico-istituzionali) che trovano un punto di fusione e di bilanciamento nella predisposizione della decisione a valle di un lavoro in camera di consiglio retto dal principio di collegialità.
La mancanza anche di un solo giudice (non eletto) lede il principio di completezza del plenum, cioè di un valore in sé il cui massimo rilievo è stato sottolineato anche dal Presidente emerito della Corte costituzionale Franco Bile allorquando, nel 2008, al fine di auspicare una sollecita nomina del quindicesimo giudice mancante, ebbe modo di affermare che «la variegata provenienza dei giudici risponde all’intento dei Costituenti di creare un organismo composito, formato da personalità appartenenti a varie categorie di operatori del diritto, per assicurare al collegio l’apporto non solo di differenti esperienze “tecniche” maturate nelle singole professioni, ma anche di diverse sensibilità culturali ed ideali. Il protrarsi nel tempo della mancanza anche di un solo giudice – pur non incidendo sulla legittimità delle decisioni […–] impedisce tuttavia al collegio di avvalersi pienamente di tale apporto previsto dalla Costituzione».
In secondo luogo, la mancanza di pluralismo nel lavoro (interno) di una Corte non completa nella sua composizione ha una ripercussione anche sulla possibile (de)legittimazione in cui potrebbe incorrere la Corte medesima, in quanto, a fronte di una mancata elezione di diversi giudici, l’eventuale assenza occasionale di uno o più componenti (fisiologicamente pur sempre possibile oltre che più che normale durante lo svolgimento di una qualsiasi attività lavorativa) potrebbe essere letta come volontà di blocco dei lavori della Corte o di dilatazione dei tempi decisori. Il rischio di pregiudizio di imparzialità sarebbe elevato benché difficile sarebbe calcolarne il grado. Seppure l’“accusa” di aver preso una decisione diversa da quella che avrebbe potuto adottare la Corte al completo costituisce un leitmotiv non del tutto eliminabile – perché si tratta di una argomentazione pur sempre proponibile anche nei confronti di una Corte che lavori al completo (“un’altra Corte avrebbe deciso differentemente”) –, dinanzi ad una Corte incompleta (seppur viga il divieto di dissenting opinion) questa ‘accusa’ potrebbe contenere un granello di verità.
L’importanza della completezza del plenum sta nella circostanza fattuale che la questione di costituzionalità risolta sia espressione di quel principio di collegialità che assicura, alla pronuncia stessa, ponderatezza, equilibrio, saggezza, mitezza e capacità di “adeguatezza” di cui hanno bisogno, in special modo, quelle decisioni che non sono soggette a revisione. Solo la presenza (completa) di tutte e tre le “anime” previste dall’art. 135 Cost. può assicurare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale, senza privare la Corte della necessaria sensibilità politica di cui abbisogna per esercitare tale funzione in piena assonanza con la natura ibrida che le appartiene.
Come ha avuto modo di spiegare esemplarmente Gustavo Zagrebelsky, non si può prescindere dalla rappresentazione della concezione che il nostro costituente ha avuto della funzione della giurisdizione costituzionale e che oggi mantiene (rectius deve mantenere grazie alla completezza del plenum) tutta la sua validità nell’aver garantito nella ratio della composizione la visione giudiziaria (la Costituzione come atto giuridico), politica (la Costituzione come documento politico) ed istituzionale (la Costituzione come nobile patto compromissorio) della garanzia costituzionale.
La dottrina costituzionalistica ha da tempo pensato a diverse possibili strade da intraprendere per superare l’inoperosità in cui sovente “cade” il Parlamento in seduta comune, e lo ha fatto in una prospettiva che è sia de iure condito sia de iure condendo: convocazione ad oltranza del Parlamento in seduta comune con obbligo di votazione continuativa; presentazione dei curricula; elezione dei giudici da parte di un organo più ristretto; avocazione del potere di nomina (da parte del Presidente della Repubblica o della Corte stessa); reintroduzione della prorogatio; abrogazione della previsione di quorum strutturale; eliminazione della quota di magistrati di estrazione parlamentare; riduzione delle maggioranze richieste. Ognuna di queste ipotesi presenta delle criticità: o perché arrivano a mettere in discussione l’ottimo equilibrio assicurato dal Costituente (minando l’equilibrio fra le tre “anime” costituzionalmente previste) o perché non paiono del tutto risolutive (nella consapevolezza che molti rimedi non riescono a bypassare il consenso che deve comunque essere ricercato e assicurato dai vari gruppi parlamentari).
Dovendo fare i conti con quanto è accaduto, e molto probabilmente continuerà a verificarsi, e pur nella consapevolezza che lo scioglimento rimane l’unico congegno istituzionale per il quale almeno il Parlamento sciolto non potrà rifugiarsi dietro un «avrei preferenza di no» (citazione della frase mai stancamente ripetuta dal celebre personaggio di Melville in Bartleby lo scrivano), nella prospettiva più celere e meno dilemmatica e che richiama alla responsabilità politica il Parlamento davanti ai propri elettori, il ritardo nella nomina parlamentare dovrebbe essere risolto con la convocazione ad oltranza del Parlamento in seduta comune con obbligo di votazione continuativa.
Si spera che il Parlamento in seduta comune non incorra più in un simile ritardo e che la prossima volta si decida prontamente per la strada qui suggerita, senza dover di nuovo attendere i tempi lunghi della politica che non sempre sono coincidenti con quelli delle istituzioni; istituzioni che devono essere viepiù difese nel periodo che stiamo vivendo. E questo vale soprattutto per la Corte costituzionale che – e di questo siamo certi – sarà chiamata a pronunciarsi su diverse normative che ci paiono a serio rischio di declaratoria di incostituzionalità stando almeno alle sole intenzioni elettorali dell’odierno Legislatore, in quanto si è ancora in una fase di quasi assoluta inerzia legislativa, seppure nei primi cento giorni di una Legislatura si sia soliti partire con una importante produzione legislativa.

*costituzionalista

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