La Calabria è celebre nel mondo non solo per la ndrangheta ma anche per l’atroce scempio, realizzato negli ultimi decenni, della sua fascia costiera lunga 780 chilometri, e tra i due fenomeni esiste in molti casi una stretta e ben documentata relazione. I fragili ecosistemi marini e litoranei, la bellezza e la varietà dei paesaggi sono stati sacrificati sull’altare della cosiddetta economia: una parola, un concetto, una fede sapientemente e senza risparmio utilizzati per insediare nell’immaginario collettivo l’idea che gli interessi di pochi affaristi senza scrupoli coincidono con quelli di tutti gli altri. I calabresi si sono dati la zappa sui piedi, hanno segato il ramo sul quale erano seduti banalizzando e artificializzando le loro coste (la costruzione di orrendi lungomari – una lebbra urbanistica in continua espansione – ha incrementato la drammatica erosione in corso distruggendo tra l’altro le dune), sparpagliando cemento e invasivi stabilimenti balneari in ogni dove, e si trovano ormai da tempo di fronte alla necessità di porre qualche freno a un modello di sviluppo turistico e a un uso del territorio rivelatisi controproducenti oltre che irresponsabili nei confronti degli equilibri ambientali. Nel 1996 nelle Baleari fu necessario varare un Piano di eccellenza turistica, si dovette fare marcia indietro perché i flussi dei visitatori erano in calo e la conseguente demolizione di numerosi edifici costieri evidenziò all’umanità intera che per il turismo di massa esistono limiti superati i quali si fa terra bruciata.
EROSIONE E CEMENTO, DA SAN LORENZO A DAVOLI In Calabria, dove pure del resto invece di affrontare i problemi idrogeologici delle aree interne si produce ulteriore dissesto facendo ponti d’oro a chi ha messo le mani sul vergognoso affare eolico, il messaggio non è arrivato e il sindaco di San Lorenzo (Reggio Calabria), per esempio, si permette di progettare il completamento della squallida porzione di lungomare già esistente mentre il fronte costiero del suo Comune ha registrato tra il 2000 e il 2016 un’erosione media di 65 metri: continuando con questa musica stonata, suonata senza garbo da ruspe e betoniere, nel 2030 la linea di costa potrebbe attestarsi a ridosso della ferrovia. L’erosione media tra il ’58 e il 2000 si era limitata a sette metri, ma il passaggio tra i due secoli e i due millenni è stato festeggiato con la costruzione di un tratto di strada asfaltata munita di marciapiedi, l’insediamento di lidi che seco hanno recato tonnellate di blocchi di cemento e con l’edificazione nella frazione Pilati di Melito, ricadente nella stessa unità fisiografica, di un assurdo muro da parte delle Ferrovie dello Stato. A Davoli, un altro esempio tra centinaia possibili, si è realizzata una scandalosa pista d’aeroporto per far passeggiare lungo il mare la gente. Quest’opera pretenziosa non è venuta al mondo nel rispetto delle regole dell’arte costruttiva: i direttori d’orchestra, con la fretta di concludere e incassare, hanno ordinato ad una manovalanza di esecutori, contenti di aver avuto accesso a un lavoro quale che fosse, di utilizzare la sabbia della spiaggia per pareggiare altimetricamente il suolo che doveva accogliere il cemento dell’aeroporto. Risultati: erosione immediata e intenzionalmente prodotta, crollo della pista alla prima mareggiata e soldi da pagare ricadenti sull’erario (quindi sulle tasche dei cittadini) per le conseguenti riparazioni.
SULL’ORLO DEL COLLASSO Siamo di fronte ad una scelleratezza particolare accolta da un’indignazione generale, a un’eccezione in un contesto governato dall’accortezza, fondato sull’uso parco delle risorse e sulla prevenzione dei danni ambientali? Purtroppo no: assistiamo all’ennesima manifestazione del meccanismo più tipico del sistema economico in cui siamo immersi, quel sistema che ha condotto il pianeta sull’orlo del collasso ambientale definitivo e fa aumentare continuamente il divario tra pochi privilegiati e moltitudini di poveri. Un sistema che i suoi fautori pomposamente e con sprezzo dell’ossimoro chiamano crescita ma che di fatto consiste nell’arraffare, distruggere, spremere ogni angolo della terra rendendolo sterile e amorfo. La crescita però non ha futuro, il sistema è giunto al capolinea e l’ossimoro consentiva già di prevederlo: in un’orbe terracqueo dalle risorse limitate solo dei pazzi forsennati o degli illusi potevano credere nella possibilità di un processo illimitato e non considerare un problema la distruzione progressiva di ogni forma di vita, le tonnellate di rifiuti che la biosfera non può assorbire e l’aumento della temperatura globale. La crescita furiosa, come necessita dell’obsolescenza programmata, ha anche sostanzialmente bisogno di opere mal costruite da riparare e puntellare quando crollano o evidenziano crepe: per questo a Caulonia il lungomare ripetutamente massacrato dalle mareggiate è sempre rinato per immolarsi ogni volta ai flutti successivi, per la stessa ragione da un lato si fabbrica erosione a Davoli e dall’altro per quella zona costiera c’è chi progetta pennelli per contenerla, perciò la bella sorpresa del terremoto dell’Aquila faceva ridere nel letto gli imprenditori che avrebbero potuto ricavare soldi dalla ricostruzione. Il ciclo del cemento tra l’altro è oggi un perno dello smaltimento illegale di rifiuti tossici e l’elenco dei siti contaminati della Calabria risulta a questo proposito illuminante (vedi lo Studio epidemiologico dei siti contaminati della Calabria a cura di P. Comba e M. Pitimada pubblicato dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2016).
L’ESEMPIO (A RISCHIO) DI CONDOFURI O si svolta o si muore in sostanza: o si passa a una fase più avanzata della storia umana perseguendo modalità meno scellerate dello stare al mondo o il precipizio già imboccato ci inghiottirà senza possibilità di risalire la china. Ci siamo soffermati sul “sacco delle coste calabresi” perché una recente esperienza di democrazia partecipata, che non a caso si era guadagnata l’attenzione e il sostegno di intellettuali di grande levatura e di fama internazionale come Carlo Rovelli, Piero Bevilacqua e Salvatore Settis, aveva mandato segnali di resipiscenza e dimostrato che quando un’amministrazione comunale sensibile e i cittadini più attivi e responsabili provano a dialogare si può uscire dall’euforia cementizia tuttora imperversante. Salvatore Mafrici, sindaco uscente di Condofuri, aveva messo a punto con la sua giunta, seguendo linee guida definite dalle associazioni locali con l’aiuto di botanici, ingegneri e professori universitari di regime e protezione dei litorali, un progetto imperniato sulla rinaturalizzazione dell’area costiera comunale, mai entrato in fase esecutiva per la conclusione del mandato. L’amministrazione uscente aveva anche finalmente confezionato un piano di spiaggia accettabile, e infatti approvato dalla Regione col decreto 5385 del 29 maggio 2018. L’attuale sindaco Tommaso Iaria pensa invece come tanti altri che il governo del territorio consista in una guerra senza quartiere contro gli ecosistemi, dichiara alla stampa di dover modificare il piano di spiaggia e in nome “dell’economia che langue” sogna infrastrutture (addirittura una darsena nell’area SIC Foce dell’Amendolea) e un profluvio di stabilimenti balneari. Noi che abbiamo fiancheggiato l’esperienza del Laboratorio territoriale interveniamo per chiedere agli amici di Condofuri, che hanno dimostrato di avere la testa sulle spalle esprimendo una visione pregna di “capacità di futuro”, di non smobilitare il “presidio territoriale” messo in piedi che si poneva per la Calabria tutta come l’avanguardia di un possibile cambiamento di rotta. Chi distribuisce cemento a man salva rappresenta una mentalità archeologica, voi una speranza da non spegnere.
*Piero Polimenti, ingegnere, responsabile Ambiente-Polo di innovazione Energia e Ambiente della Calabria
**Rosalba Petrilli, biologa
***Alberto Ziparo, docente di Pianificazione urbanistica (Università di Firenze)
Qui la lettera di Carlo Rovelli pubblicata il 7 luglio 2017 sul Corriere della Calabria.
Nella foto una veduta del litorale di Condofuri (dall’archivio del Gruppo archeologico Valle dell’Amendolea).
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