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Le “cantate” di Emanuele Mancuso. Che definisce i suoi zii «carabinieri senza divisa»

Il primo pentito del potente casato di ‘ndrangheta vibonese ha rilasciato trenta interrogatori ai magistrati della Dda di Catanzaro. Duecento pagine di verbali da cui emergono i contrasti con i bos…

Pubblicato il: 13/01/2019 – 13:32
Le “cantate” di Emanuele Mancuso. Che definisce i suoi zii «carabinieri senza divisa»

LAMEZIA TERME Trenta interrogatori: il primo il 18 giugno, l’ultimo poche settimane fa, il 10 dicembre. Duecento pagine di verbali, sei mesi di “cantate” destinate a fare rumore. Nel carcere di Paliano, in provincia di Frosinone, da una parte c’è Emanuele Mancuso, 31 anni a febbraio, rampollo di uno dei casati di ‘ndrangheta più potenti della Calabria, un superclan che, prima di lui, non aveva mai avuto un pentito interno, uno che portasse quel cognome tanto temuto ben oltre i territori vibonesi di Limbadi e Nicotera. Dall’altra ci sono Annamaria Frustaci, sostituto procuratore della Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, e i carabinieri del Ros di Catanzaro e del Nucleo Investigativo di Vibo. Fanno domande e ascoltano cosa ha da raccontare Emanuele “Zen”. Suo padre, Pantaleone “l’Ingegnere”, 57enne discendente diretto della “generazione degli 11” (il nucleo originario della famiglia), è uno dei boss del ceppo “’Mbrogghjia”, già arrestato nell’agosto del 2014 alla frontiera tra Brasile e Argentina con in tasca un documento falso e 100mila euro in contanti. Emanuele è insomma un vero rampollo di ‘ndrangheta ma è sempre stato un personaggio sui generis, molto “attivo” sui social network e sicuramente mai ligio ai dettami mafiosi dell’understatement. È uno, insomma, che non si è mai preoccupato di mantenere un basso profilo, di non apparire troppo per non accendere i riflettori su di sé e la sua famiglia. Ma ora per la Procura antimafia di Catanzaro c’è da trovare riscontri alle sue parole per attestarne la credibilità. Perché già dai verbali diventati pubblici di recente, pieni di pagine coperte da omissis, si intuisce che le cose che ha da dire, se confermate, possono avere conseguenze devastanti.

LEONE DOVEVA MORIRE I pezzi di interrogatorio non più secretati sono stati depositati in alcuni procedimenti giudiziari che riguardano il clan Soriano di Filandari. Emanuele Mancuso ha intessuto rapporti con Leone Soriano, il boss del piccolo paese alle porte di Vibo, ma ha un legame «fraterno» soprattutto con il nipote del boss, Peppe Soriano, figlio di Roberto, scomparso per lupara bianca. Rapporti, questi, che Emanuele porta avanti nonostante i Soriano siano ostili ai capi della sua famiglia, a quegli zii “grandi” per cui il rampollo pentito dimostra di nutrire un certo risentimento.
Che nel clan Mancuso, tra le varie articolazioni, ci siano stati e ci siano tuttora dei dissapori è storia nota, ma i verbali aggiungono elementi in parte nuovi e certamente inquietanti. Da un lato c’è Luigi Mancuso, zio del padre di Emanuele, considerato oggi il capo assoluto del clan. Dall’altro c’è Leone Soriano, che il pentito stesso definisce uno «psicopatico criminale» deciso a seguire una linea «stragista» che preoccupa i suoi stessi familiari. In mezzo c’è un imprenditore che è nel mirino di Soriano e che, secondo Emanuele, sarebbe vicino ai Mancuso, anche se in un recente processo è stato assolto. Emanuele prova a mediare tra i due clan. Leone Soriano ritiene che l’imprenditore sia un «collaboratore» e che lo abbia fatto arrestare. Emanuele prova a mettersi in mezzo e trova un primo accordo che non verrà rispettato, ma lui stesso mette una bomba a casa dell’imprenditore perché, dice, si è sentito «utilizzato» dai suoi parenti: «Ho capito che avevano fatto quell’accordo – secondo cui i Mancuso dovevano versare qualche migliaio di euro a Soriano, ndr – tramite me perché volevano prendere tempo per organizzare l’eliminazione di Leone Soriano». Arrestandolo, invece, secondo il pentito gli hanno «salvato la vita».
«CARABINIERI SENZA DIVISA» Peppe Soriano è preoccupato dai propositi stragisti dello zio e dice al suo amico Emanuele: «Vedi tu cosa puoi fare». Emanuele riceve un fascicolo da Leone: dentro ci sono documenti giudiziari «con le dichiarazioni già rese» dall’imprenditore contro il gruppo Soriano. Il 30enne va a casa di suo zio Luigi, dove ci sono anche il figlio di Giovanni e il genero di Antonio, altri due zii “della generazione degli 11”. Il boss, con un sorriso ironico, spiega al nipote che anche Leone si sarebbe comportato «da collaboratore» contro il clan Mancuso. Emanuele prova a prendere le difese di Leone e chiede allo zio di riconoscergli un «contributo economico» come risarcimento, per essere stato al 41 bis e per il «danno che gli era stato arrecato da quelli – mette a verbale il pentito – che io chiamo “carabinieri senza divisa”, ossia da Mancuso Antonio e da Mancuso Pantaleone detto “Vetrinetta” (altro boss “degli 11” deceduto, ndr)». Insomma sarebbero stati proprio i suoi zii, secondo Emanuele, a chiedere all’imprenditore di rendere le dichiarazioni contro Soriano. «Perché al giorno d’oggi – mette a verbale il rampollo del clan – si usa così: quando si vuole togliere di mezzo qualcuno, anziché eliminarlo fisicamente, si manda l’imprenditore amico della cosca a denunciarlo alle forze dell’ordine. In tal modo si evitano gli omicidi e si ottiene l’effetto di neutralizzare il nemico».
L’EROINA Negli interrogatori Emanuele Mancuso parla spesso di marijuana e cocaina. Le sue prime dichiarazioni hanno già svelato molte cose sulla filiera dell’erba nel Vibonese e su traffici e metodi di coltivazione: tutto è confluito nell’operazione “Giardini segreti”. Ma ora parla anche di eroina. E spiega che sono solo due i canali su cui si traffica questa sostanza nel Vibonese: uno passa da San Giovanni e Comparni, frazioni di Mileto; l’altro proprio da Filandari e dal suo amico Peppe Soriano. «So che Giuseppe Soriano andava a Napoli – racconta – per prendere l’eroina. In zona, nel Vibonese, non la tratta quasi nessuno perché so che è pericolosissima. (…) Nelle zone di Spilinga, Zungri, Mesiano, Pernocari, Rombiolo, Paravati, Mileto, Comparni, Filandari, Arzona e Vena di Ionadi è assidua la presenza di consumatori di eroina».
Emanuele ricostruisce anche altri “movimenti” di cocaina tra lui e i Soriano ed è interessante quanto riferisce rispetto ad uno di questi traffici. I Soriano contestano la purezza di una partita di cocaina e il rampollo dei Mancuso va da una persona – il cui nome è coperto da omissis – dicendogli che la famiglia di Filandari rivoleva indietro i soldi: «Mi disse: “Vedi che questa sostanza me la procurano gente della Ionica e sono intimi amici della tua famiglia” e mi fece il cognome dicendomi che non avrebbero mai fatto uno sgarbo del genere».
FAMIGLIE, TALPE E COLLETTI BIANCHI Quando ancora non si è saputo che sta collaborando con la giustizia, Emanuele Mancuso spiega che quando si diffonderà la notizia i suoi familiari più stretti saranno in pericolo, a partire da suo padre. A meno che non facciano come i parenti di Nicola Figliuzzi, altro collaboratore di giustizia e già killer della ‘ndrangheta vibonese, che si sono dissociati pubblicamente, i suoi congiunti potrebbero subire la reazione di diverse cosche della zona. Ed elenca quali, a cominciare dagli «esponenti della mia stessa famiglia», e poi «gli Accorinti di Zungri, gli Accorinti di Briatico, Gregorio Niglia detto Lollo (affiliato alla famiglia Accorinti di Zungri e vicino alla famiglie Mancuso e Pesce di Rosarno), Razionale – credo che si chiami Saverio – legato alla famiglia Fiarè di San Gregorio d’Ippona, i Navarra ma soprattutto Leone Soriano (non tanto la famiglia Soriano)».
Ma nelle sue dichiarazioni, soprattutto in quelle tuttora coperte da segreto, c’è probabilmente anche spazio per la famigerata zona grigia, per colletti bianchi, professionisti e imprenditori che potrebbero aver favorito o essere stati al servizio del suo clan. E magari anche per qualche talpa nelle forze dell’ordine. Nel verbale dell’interrogatorio del 19 giugno, dopo ben tre pagine di omissis, si legge: «Ho saputo anche della recente indagine sui Soriano, mi è stato detto di non andare da loro perché erano intercettati. Ciò nonostante mi sono continuato a recare da loro con delle precauzioni, ma non sapevo fosse stato lanciato un trojan». Qualcuno insomma metteva in guardia Emanuele, gli diceva di stare attento a «ciò che fai e con chi ti metti, non metterti con i Soriano, non metterti contro tuo zio Luigi». «Insomma da quel discorso», Emanuele comprese che la persona che gli aveva detto quelle cose, il cui nome è omissato, «era a conoscenza di tutti i miei movimenti».

Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it

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