LAMEZIA TERME Nel gennaio del 2013, il duplice omicidio di Giovanni Vescio e Francesco Iannazzo piomba sul Lametino come una tempesta inaspettata. Per l’efferatezza – amplificata dalle immagini delle telecamere del bar di Decollatura in cui si svolge la scena –, per il contesto – considerato erroneamente tranquillo –, per ciò che nasconde e che l’inchiesta “Reventinum” della Dda di Catanzaro ha svelato pochi giorni fa.
I sospetti si addensano sulla famiglia Mezzatesta. Domenico sparisce: la sua latitanza dura a lungo ma non è “silenziosa”. Scrive una lettera ai giornali. E ne manda una anche alla Procura della Repubblica di Lamezia Terme, dove è in corso il processo per l’agguato nel “Bar del Reventino”. È un «vano» tentativo, scrivono oggi gli investigatori, «di sminuire la propria posizione all’interno della faida tra le due famiglie e quindi il suo ruolo criminale». Eppure quella lettera assume un’importanza centrale nel quadro delle accuse, perché «chiariva senza dubbio alcuno la presenza sul territorio del Reventino di due famiglie criminali: i Mezzatesta e gli Scalise». E «indicava tra gli appartenenti al sodalizio criminale degli Scalise anche Giovanni Vescio e Francesco Iannazzo». In quella lettera, Domenico Mezzatesta fa «esplicito riferimento ad episodi, atti intimidatori subìti» da lui e da persone che gli erano vicino. Un clima che ha «condotto le due famiglie a un punto di rottura e agli scontri che sono poi sfociati nei fatti di sangue».
Quelle pagine, però, non centrano l’obiettivo. Dalla loro lettura – sono le valutazioni dei magistrati della Dda – emerge «chiaramente l’indole e la caratura criminale di Mezzatesta» che racconta «di essersi procurato illecitamente un’arma da fuoco per far fronte alla cosca avversaria, anziché rivolgersi alle forze dell’ordine». E «la metodologia mediante la quale illecitamente si procurava un’arma da fuoco, era altresì sintomatica di un’indole criminale insita nell’uomo che si inquadra peraltro in condotte tipicamente ‘ndranghetiste».
«VOLEVANO FARE UNA STRAGE A CASA MIA» Nella lettera dalla latitanza, Mezzatesta ripercorre l’inizio dei contrasti tra la sua famiglia e gli Scalise. Una versione sbilanciata, come sottolineano gli inquirenti, che conferma come il clima, sulla “montagna”, sia teso. Al centro della contesa c’è una fornitura per il noleggio di una piattaforma da utilizzare per la realizzazione della strada statale “Medio Savuto”. Mezzatesta capisce che si tratta di materia sensibile nel Reventino. La supposizione diventa evidenza nel giro di pochi giorni: «Infatti – scrive Mezzatesta nella sua lettera alla Procura – l’11 settembre alle 2,30 scoppiò una bomba a casa mia, collocata vicino dove ci sono i tubi del gas e dove dormiva mio figlio, un bambino di soli 7 anni. Volevano fare una strage. Quando sono arrivato nella stanza insieme alla mia compagna per vedere il bambino, eravamo sicuri che fosse morto». Dopo 10 giorni – il racconto continua – Mezzatesta e Scalise si incrociano ma il primo spiega a un amico comune «che mi doveva parlare prima che mi mettesse la bomba a casa, perché gli amici suoi mi hanno detto che era stato lui e non doveva farlo perché aveva ammazzato mio figlio (…). Lui mi rispose che secondo lui non sapeva che lì ci dormiva il piccolo». La lettera dalla latitanza è molto lunga: ripercorre anche il furto di un camioncino che sarebbe avvenuto nei pressi dello svincolo autostradale di Piano Lago e il successivo scontro che induce Mezzatesta ad adoperarsi per comprare una pistola. Cerca di sminuire la propria posizione. Scrive di aver detto a un amico: «Lo sai cosa si dice in giro? Che Daniele mi vuole fare la pelle, per questo mi sono fatto accompagnare (a comprare la pistola, ndr), per la mia disperazione, la portavo tutti i giorni e pure di notte». È la conclusione di un’escalation partita anni prima, nel 2009, dopo l’acquisto di una pala meccanica da parte del Comune di Decollatura. L’amministrazione comprò il mezzo e dopo quell’acquisto «gli Scalise non fecero più lavori al Comune». Per Mezzatesta le macchine bruciate a un suo amico, la bomba al sindaco e l’intimidazione a un ragazzo che guidava la pala meccanica sarebbero le conseguenze di quella scelta. Scelta che ha innescato la guerra tra i gruppi criminali della “Montagna”. Una scia di sangue arrivata fino a Lamezia.
Pablo Petrasso
p.petrasso@corrierecal.it
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