CATANZARO Il commissariamento del Pd calabrese, in fondo, era l’esito più scontato, quasi banale. Il Corriere della Calabria lo aveva previsto per tempo, in splendida solitudine. Ma il facile vaticinio aveva anche trovato il sarcasmo di chi, invece, assicurava che il congresso regionale si sarebbe fatto, eccome. Il più attivo, su questo versante, era stato il segretario uscente, il senatore Ernesto Magorno, che – almeno stando alle sue dichiarazioni pubbliche – sembrava aver consacrato la sua vita politica alla celebrazione futura dell’assise, da cui sarebbe saltato fuori il nome del nuovo segretario.
Pochi giorni dopo i disastrosi risultati del Pd alle Politiche del 4 marzo 2018, Magorno – nel corso di quella seduta di psicoanalisi collettiva che è stata l’assemblea di Pianopoli – aveva preso la parola per tracciare la rotta e ammonire: «Se c’è qualcuno che vuole il commissario in Calabria si organizzi, lo dica chiaramente, raccolga le firme e lo chieda a Roma. Io, per parte mia, mi batterò perché in Calabria si faccia il congresso». Da quel momento in poi, difatti, è stato un susseguirsi di date possibili, di aspiranti alla segreteria, di commissioni di garanzia, di dichiarazioni ottimistiche sulla capacità di autodeterminazione del partito.
Ieri, invece, il Pd romano ha scritto il finale che né Magorno né gli altri dirigenti calabresi hanno mai voluto prendere in considerazione.
IL COMMISSARIAMENTO Il commissariamento deciso da Matteo Orfini, in accordo con tutte le mozioni congressuali, tra cui quella di Maurizio Martina e, soprattutto, di Nicola Zingaretti, è invece avvenuto nel modo più duro e traumatico possibile, con tanto di strigliata (che suona come una vera e propria delegittimazione) all’indirizzo del gruppo dirigente calabrese. La nota ufficiale diramata dalla presidenza del partito non lascia dubbi sulle responsabilità che Roma attribuisce ai dem della regione: «Il Pd calabrese doveva svolgere il proprio congresso entro dicembre, esattamente come tutte le altre federazioni in scadenza. Così non è avvenuto. Nell’ultima Direzione avevamo consentito una proroga per tre regioni tra cui la Calabria, concedendo di accorpare il congresso regionale a quello nazionale. Già allora segnalammo che non aver rispettato la scadenza regolamentare di dicembre era una violazione grave e che non sarebbero state tollerate ulteriori irregolarità. Ciononostante nulla, nemmeno dopo quella proroga, è stato fatto dal Pd della Calabria per garantire lo svolgimento del congresso. La scelta di commissariare è dunque l’unico strumento per garantire il rispetto delle regole e lo svolgimento del congresso».
ESPOSITO RINUNCIA In questo quadro, vanno anche considerati gli effetti della nomina del commissario. Il piemontese Stefano Esposito ha deciso di rinunciare all’incarico, ma è chiaro che il nuovo responsabile avrà un compito nient’affatto facile: rimettere ordine in un partito squassato, ormai da anni, da una lotta tra bande.
OLIVERIO E LA RICANDIDATURA Da rilevare, sul punto, anche l’atteggiamento dell’ex premier Matteo Renzi (il cui punto di riferimento, in Calabria, è da sempre Magorno), che dopo aver flirtato per lungo tempo con l’ancien régime regionale non si sarebbe opposto (anzi) al commissariamento del partito.
L’area che più temeva un simile esito era quella che fa capo al governatore Mario Oliverio, che – dopo l’obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore – incassa un altro brutto colpo. Il perché è presto detto: un segretario calabrese, votato in massa dalla parte politica che si riconosce nella corrente dei vari Adamo-Bruno Bossio-Romeo, avrebbe offerto più garanzie in vista della ricandidatura alla Regione dello stesso presidente uscente. Oliverio aveva oggettivamente bisogno di un segretario “amico”, soprattutto ora che la sua vicenda politica risulta offuscata dall’inchiesta della Procura di Catanzaro in cui è coinvolto. La nomina di Esposito, insomma, non offre alcuna certezza. Anzi: è una vera e propria incognita. E infatti, ieri, durante il vertice dei dem calabresi con Orfini, i più contrariati sono stati proprio Enza Bruno Bossio, Sebi Romeo e Luigi Guglielmelli, oliveriani senza se e senza ma.
LA RIGIDITÀ DEL PARTITO I “seguaci” del governatore hanno però trovato un muro davanti a loro. E sono stati costretti a prendere atto della volontà del Pd romano di fare pulizia e, al tempo stesso, di tirarsi fuori con il minimo danno dal pantano calabrese. Del resto, che il partito nazionale non volesse immischiarsi nelle vicende locali lo si è intuito all’indomani della misura cautelare inflitta a Oliverio, quando nessun big ne ha preso le difese ufficialmente. Nemmeno Zingaretti, ovvero il candidato alla segreteria a cui il governatore aveva offerto sostegno e voti.
Nel grande oblio in cui è finito il Pd, rimbombano l’assenza e il silenzio dell’ex ministro Marco Minniti, sempre più disinteressato alle sorti del suo partito in Calabria. Lui al vertice romano non è stato neanche invitato. Certo, Minniti, formalmente, non è un parlamentare calabrese (è stato eletto in Campania), ma quanto appaiono lontani, oggi, i tempi in cui giocava a fare il badante del Pd regionale, seduto accanto a Oliverio e Magorno nelle varie (e infruttuose) assemblee di partito.
Pietro Bellantoni
p.bellantoni@corrierecal.it
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