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«Per i cattolici è il momento delle scelte»

di Angelo Panebianco*

Pubblicato il: 21/01/2019 – 23:11
«Per i cattolici è il momento delle scelte»

Pubblichiamo l’intervento che Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera, ha svolto nel corso del convegno “Liberi e forti: storia o attualità?”, organizzato a Catanzaro dall’Arcidiocesi metropolitana e dall’associazione di cultura politica “Luigi Sturzo” per celebrare il centenario della fondazione del Partito popolare e dell’appello di don Sturzo.
Il ruolo dei cattolici nell’Italia dal dopoguerra ad oggi può essere considerato da tre diversi punti di vista. In primo luogo, si può collocare la vicenda del cattolicesimo politico italiano all’interno di un quadro più ampio, quello che riguarda la storia dei partiti cristiani in Europa. In secondo luogo, si può esaminare la posizione che fu propria del partito cristiano entro quella democrazia (così anomala per molti aspetti) che si affermò in Italia dopo il 1945. Nonché le cause della sua finale dissoluzione. Infine, si può valutare il contributo dei cattolici alla formazione della classe dirigente (politica e non) del nostro Paese.
Fu uno studioso norvegese, Stein Rokkan, negli anni Sessanta/ Settanta del secolo scorso ad articolare una “mappa politica” dell’Europa che consentiva, fra le altre cose, di spiegare le diversificate vicende dei partiti cristiani. Rokkan notava che i “sistemi di partito” che si erano formati in Europa occidentale dopo la fine della Seconda guerra mondiale presentano delle somiglianze ma anche delle importanti differenze. Una delle principali differenze riguardava proprio la presenza (o l’assenza) di partiti cristiani. Se si osservava l’Europa dell’epoca alla luce delle differenti confessioni religiose, si potevano distinguere fra un Nord (Gran Bretagna, Paesi scandinavi) interamente protestante, un Sud interamente cattolico e una zona intermedia (Germania, Svizzera, Olanda) nella quale maggioranze protestanti coesistevano con forti minoranze cattoliche. Nell’Europa del Nord non c’erano partiti cristiani mentre tali partiti erano presenti sia nel Sud d’Europa che nella zona intermedia. Come mai? La spiegazione di Rokkan era la seguente. Nel Nord protestante, ove esistevano Chiese riformate dotate storicamente di stretti legami con i rispettivi Stati, nel corso della democratizzazione dell’Ottocento non si era manifestata una divisione “Stato/Chiesa” così intensa e potente da spingere i cristiani a dare vita a partiti politici autonomi. Per conseguenza, quello che, nell’Europa cattolica, sarebbe stato l’elettorato privilegiato dei partiti religiosi, ossia il mondo rurale, dovette trovare canali alternativi per contrapporsi alle città (da cui il mondo rurale era diviso per stili di vita e per interessi economici). Fu così che nei paesi scandinavi nacquero i “partiti dei contadini” (partiti verdi ante litteram), formazioni politiche per lungo tempo presenti solo in quei Paesi. I partiti cristiani si affermarono solo nell’Europa del Sud e nella zona intermedia. Con una differenza: nell’Europa del Sud, mono-confessionale, nacquero partiti cattolici. Nella zona intermedia, sia i protestanti che i cattolici si organizzarono politicamente (diedero vita a partiti). In tutte e due le aree, nel corso dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, questi partiti trassero il grosso del proprio elettorato dalle campagne (anche se, naturalmente, non erano mai del tutto assenti nelle città).
Nell’interpretazione di Rokkan, solo nell’Europa cattolica e nella zona intermedia la divisione fra Stati (guidati da élite secolari) e Chiesa (Chiese), sommandosi a quella fra città e campagna, fornì ai partiti cristiani l’energia, materiale e spirituale, che ne assicurò il successo elettorale e politico.
Un corollario dell’analisi di Rokkan è che, così come furono i conflitti fra Stato e Chiesa il propellente che fece decollare i partiti cristiani, la secolarizzazione (intesa come riduzione della presenza del sacro nella vita pubblica) e la perdita di intensità di quei conflitti, sul finire del Novecento hanno tolto progressivamente spazio e ruolo ai partiti cristiani, sia cattolici che protestanti.
Il secondo aspetto da considerare riguarda la particolare posizione della Democrazia cristiana all’interno del sistema politico italiano dopo il 1945 o, più precisamente, nel periodo che intercorre fra il momento del consolidamento di quel sistema politico (dopo le elezioni del 18 aprile 1948) e il momento della sua dissoluzione (primi anni novanta).
Se Rokkan ci aiuta a comprendere il come e il perché dell’affermazione (o della mancata affermazione ) di partiti cristiani in Europa, è la teoria che venne a suo tempo proposta dal più illustre degli scienziati politici italiani, Giovanni Sartori, che consente di mettere a fuoco ruolo e posizione della Democrazia Cristiana in quel lasso di tempo. Per Sartori, l’Italia dopo il 1945 (e fino ai primi anni novanta) era un sistema “estremo e polarizzato”. La sua caratteristica era una forte presenza elettorale di partiti anti-sistema sia di destra che di sinistra, partiti che, per definizione, non potevano accedere a ruoli di governo. Se l’estrema destra e (soprattutto) l’estrema sinistra erano occupate in permanenza, prigioniere di partiti anti-sistema, ne derivava che il “centro” (ossia l’insieme di partiti che occupavano la zona centrale dello schieramento politico) era “condannato” a governare in permanenza. Si trattava di una democrazia senza alternanza. Oltre all’Italia dopo il 1948 , anche la Francia della Quarta Repubblica (1946-1958) apparteneva, secondo Sartori, alla categoria dei sistemi estremi e polarizzati. La differenza fra i due casi consisteva nel fatto che nella Quarta Repubblica il partito cattolico non era un partito dominante, faceva parte di un “raggruppamento” centrista insieme ad altri partiti di forza elettorale equivalente , mentre nel caso italiano la Democrazia cristiana era partito egemone sempre al governo e guidava il Paese alternando coalizioni con piccoli partiti di destra (l’età del centrismo) a coalizioni di centrosinistra (insieme ai socialisti, con fasi alterne, a partire dagli anni sessanta).
Una democrazia costantemente guidata da uno stesso partito (in questo caso, di ispirazione religiosa) era l’effetto della guerra fredda e della conseguente impossibilità per il maggior partito di opposizione, il Partito comunista, di accedere a ruoli di governo in un Paese appartenente al blocco occidentale. Naturalmente, una democrazia siffatta, priva di ricambio, o con ricambi limitati, nel personale governativo, nel lungo periodo non poteva non provocare un logoramento del partito egemone.
Per ciò che qui conta, però, per la peculiare storia della politica italiana del dopoguerra (è questo che più ci interessa della teoria di Sartori) si determinò una completa sovrapposizione fra il partito cattolico e il “centro” dello schieramento politico. Nel partito cattolico, nella Democrazia cristiana, proprio in ragione della sua inamovibilità politica, erano rappresentate quasi tutte le correnti ideologiche presenti nel Paese: c’erano, al suo interno, “fazioni” di sinistra (che si sforzavano di favorire incontri fra la Dc e il partito comunista) e “fazioni” di destra (che resistevano a quelle pressioni). La combinazione di queste spinte e controspinte confermava il partito nel suo ruolo centrista. Democrazia cristiana e centro politico divennero praticamente sinonimi.
La fine della Guerra fredda fece rapidamente crollare il sistema del pluralismo estremo e polarizzato. Giocarono anche altre cause: la secolarizzazione e il conseguente venir meno di una forte identità politica cattolica. E poi gli effetti negativi (il più importante dei quali consistette nell’accumulazione di un enorme debito pubblico) di una fase troppo lunga di governi privi di ricambio, guidati per tanti anni da partiti mai seriamente sfidati nelle urne elettorali.
Quando, nei primi anni Novanta, nacque l’Italia bipolare (centrodestra contro centrosinistra), i cattolici, ormai senza un loro specifico punto di riferimento partitico , si distribuirono lungo l’intero arco politico: chi scelse la destra e chi la sinistra. E così è tuttora.
Il terzo e ultimo aspetto che qui considero riguarda il contributo dei cattolici alla formazione delle classi dirigenti italiane. Nel dopoguerra, il ruolo del mondo cattolico (nelle sue diverse articolazioni) nella formazione di settori importanti della classe dirigente è stato per lungo tempo considerevole. Ciò era una conseguenza della capillarità della presenza organizzata dei cattolici nella società italiana. Fu cruciale soprattutto il ruolo delle associazioni collaterali (Azione cattolica, sindacato cristiano, eccetera). Una delle più importanti ricerche sociologiche che videro la luce in Italia alla fine degli anni sessanta, quella dell’Istituto Cattaneo di Bologna (La presenza sociale del Pci e della Dc , Il Mulino, 1971), mostrò quanto socialmente e geograficamente ramificato, nonché fortemente organizzato, fosse quel mondo cattolico da cui il partito egemone dell’epoca traeva la sua linfa vitale.
Dalle fila di quel mondo provenivano non solo i quadri dirigenti della Democrazia cristiana ma anche funzionari e dirigenti di Stato, nonché animatori dell’industria pubblica. Il nome di Enrico Mattei basti per tutti. Inoltre, anche in molte altre professioni (dalla scuola alle professioni indipendenti) si avvertiva la presenza di influenze dovute a esperienze di formazione nelle varie espressioni organizzate del cattolicesimo.
Concludo con qualche osservazione sulla fase attuale. Nell’epoca della secolarizzazione che forse preclude (ma non solo in Italia) la possibilità che rinascano formazioni politiche cattoliche dotate di forte seguito elettorale, quale ruolo strategico potrebbe svolgere il cattolicesimo organizzato nella vita pubblica italiana? Non mi riferisco, naturalmente – perché non mi compete, non ho alcun titolo per parlarne – all’attività della Chiesa quotidianamente impegnata nella diffusione del messaggio cristiano. Mi riferisco a un altro aspetto. I cattolici, forti di una esperienza antica, a mio giudizio, potrebbero dare di nuovo (come in passato, anche se in modo diverso) un contributo importantissimo alla formazione di una classe dirigente di qualità. Potrebbe farlo in modo indiretto, irrobustendo (e anche riqualificando là dove risultasse necessario) il sistema di scuole private, e più in generale, l’insieme delle istituzioni educative che alla Chiesa fanno capo. Da diversi anni assistiamo a un deterioramento di parti importanti della scuola pubblica. Finché le scuole pubbliche, e massimamente le scuole secondarie, erano prevalentemente di alta qualità, non c’era obiettivamente molto spazio per le scuole private, cattoliche e non. Oggi che la scuola pubblica ha perso molto dell’antico smalto (non ovunque ma in diversi luoghi sì) la scuola privata ha possibilità e occasioni che in precedenza non c’erano. Ricordo che in Francia, tradizionalmente, l’esistenza di un eccellente sistema di scuole private cattoliche spinge spesso anche famiglie non cattoliche, o tiepidamente credenti, a scegliere quelle scuole allo scopo di dare ai loro figli un’ istruzione di qualità. È anche (o soprattutto?) in questo modo che il mondo cattolico può contribuire alla formazione delle classi dirigenti.
Forse in Italia il tempo presente richiede, da parte degli uomini di chiesa e da parte dei cattolici impegnati nella vita pubblica, scelte e investimenti, di attenzione e di risorse, che vadano in quella direzione.

*editorialista del Corriere della Sera

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