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Strage di Cassano, condannati all'ergastolo Cosimo e Campilongo

La Corte di Assise di Cosenza, oltre all’isolamento diurno per sei mesi, ha condannato i due imputati al risarcimento delle spese legali. Sono accusati dell’omicidio del piccolo Cocò Campolongo, de…

Pubblicato il: 21/01/2019 – 19:12
Strage di Cassano, condannati all'ergastolo Cosimo e Campilongo

COSENZA Ergastolo ed isolamento diurno per sei mesi, oltre al risarcimento delle spese legali. È questa la decisione della Corte di Assise di Cosenza presieduta da Giovanni Garofalo con a larere la collega De Vuono e i giudici popolari nei confronti di Donato Cosimo e Faustino Campilongo. Con questo dispositivo, in attesa delle motivazioni, si chiude la prima fase del giudizio per gli imputati della morte del piccolo Cocó Campolongo, di suo nonno Giuseppe Iannicelli e della compagna Ibtissam Touss. Tutti e tre persero la vita il 16 gennaio del 2014 per mano di Donato Cosimo e Faustino Campilongo, noti a Cassano allo Ionio, con il soprannome di “topo” e “panzetta”. Entrambi finirono a stretto giro nel registro degli indagati. Quello che negli anni è stato ricordato con il nome del “delitto del piccolo Cocó” è stato uno degli omicidi più efferati che sia consumato nella provincia di Cosenza da quando le diverse cosche criminali provano a controllare il territorio. Un triplice omicidio che fece scalpore al punto che anche Papa Francesco organizzò la sua prima visita in Calabria proprio nella cittadina ionica.
Nel corso della requisitoria il procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro ha più volte ricordato che l’omicidio di Iannicelli per i due imputati doveva essere il “battesimo” per entrare nella criminalità che conta. Giuseppe Iannicelli, nonostante il matrimonio con una donna del clan Abbruzzese, aveva dei conti aperti con i reggenti della cosca. E a spiegare il perché è proprio il pm Vincenzo Luberto. Iannicelli, nell’ambiente criminale, era accusato innanzitutto di essersi rifornito di droga da rivendere dai rivali della famiglia Abbruzzese, i Forastefano. Poi l’accusa di detenzione di armi da parte di Fioravante Abbruzzese che Iannicelli fece durante un colloquio mentre era detenuto. Era la vittima designata, soprattutto quando iniziò a meditare di intraprendere la strada della collaborazione con la giustizia. Tutti sapevano che Iannicelli era nel mirino e ne era cosciente anche lui, al punto che, come è emerso nella fase istruttoria del processo, il piccolo nipotino e la compagna andavano in giro sempre con lui al solo scopo da fare gli scudi umani.
«Nessuno pensava sarebbero arrivati a tanto» si è ripetuto più volte nel corso delle udienze ma così non è stato: i tre sono stati prima freddati a colpi di pistola, poi messi in una Fiat punto e quindi dati alle fiamme. Una scena del crimine che diventa ancora più macabra se si pensa che Giuseppe Iannicelli Jr, figlio della vittima, cercando il padre nella notte in cui si erano perse le tracce dalla sua abitazione vide la colonna di fumo proveniente dalla zona in cui fu bruciata la macchina e sentì l’odore della carne bruciata.

Michele Presta
m.presta@corrierecal.it

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