Trascorsi 10 mesi dalle elezioni del 4 marzo 2018, e dopo 27 anni dalla prima “Raccomandazione europea” del 1992, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, il Decreto Legge n. 4 del 2019 (“Misure urgenti in materia di reddito di cittadinanza e pensioni”).
Il dibattito pubblico oscilla tra la posizione del “benvenuto Stato sociale” e l’altra, ugualmente estrema, del “sarà solo un fallimento con pesanti effetti assistenzialistici”.
Entrambe non possono essere sostanzialmente accettate se si vuole ragionare con onestà intellettuale e raziocinio, ma anche con sano (e gramsciano) “ottimismo della volontà”.
Due sono i punti di partenza da cui ogni ragionamento non propagandistico deve muovere.
Il primo consiste nel fatto che il reddito di cittadinanza di cui al decreto in Gazzetta (ed ai 17 decreti attuativi cui le norme rinviano, ipotizzando un celere procedimento parlamentare per la necessaria legge di conversione) rappresenta in buona sostanza un reddito minimo garantito e condizionato ed ha funzione di strumento di ‘lotta alla povertà’ (sia assistenziale sia lavoristica, di fatto un workfare). A fronte del titolo della legge, esso cioè non è un vero e proprio ‘reddito di cittadinanza’, per come normalmente si definisce il basic income in tutto il mondo (e che, nella forma pura, esiste solo in Alaska!).
Il secondo punto di partenza va individuato nella circostanza per la quale il reddito minimo garantito e condizionato era, ed è, un atto necessario di attuazione costituzionale e di attuazione delle disposizioni europee (in pratica … “ce lo chiede l’Europa!”).
La Costituzione italiana, nella sua Parte prima (“Diritti e doveri dei cittadini”), impone l’istituzione di reddito minimo garantito e condizionato agli articoli 3, 4 e 38. In particolare, secondo quest’ultima disposizione “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Le disposizioni comunitarie, a loro volta, richiedono l’istituzione di un reddito minimo garantito all’articolo 34.3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che dal 2007 fa parte dei Trattati Europei.
Tale Carta dei diritti dispone che “1. L’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali. 2. Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”. Ma soprattutto stabilisce, al comma 3, che “Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali” (nell’articolo 1, la stessa Carta statuisce che “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”, come ci ha sempre ricordato Stefano Rodotà, che della Carta è stato un coautore).
Assodati i due punti di partenza il dibattito pubblico può iniziare.
Dei vari aspetti del decreto che potrebbero essere enucleati (“ce la farà il bilancio dello Stato?”, “ce la farà la neo-istituita Anpal e i deboli CPI pur ben assistiti dai Navigator del Missisipi”?), in questa sede, ne vogliamo sottolineare uno in particolare, se non altro perché esso appare finora stranamente (e pericolosamente) sottovalutato.
Posto che l’ordinamento nazionale e quello europeo rendono doveroso l’intervento del legislatore, quali sono gli obblighi istituzionali ed amministrativi che ricadono in capo ai governi regionali e locali? Ancor più specificamente, come disciplina il decreto le attività cui sono tenuti i comuni e le regioni coinvolti nelle misure di attivazione e di assistenza sociale? Ed infine, i governi regionali e locali, specie al Sud Italia, hanno o avranno particolari fondi per i loro servizi sociali?
Come si nota agevolmente, i quesiti intorno al reddito di cittadinanza – semplici e lineari fintanto che ci si muoveva a livello normativo – diventano complessi e spinosi quando si passa alla dimensione politico-amministrativa, gestionale e finanziaria. Se la riforma italiana del reddito minimo garantito e condizionato (e le manovre alle quali si associa: tributarie e pensionistiche) andrà incontro ad un successo o ad un fallimento, molto dipenderà da come i comuni e le regioni opereranno in concreto. Al di là della battaglia politica, e al netto delle forzature insite nella proposta di un referendum abrogativo avanzata da alcuni parlamentari, il destino della lotta alla povertà passa anche dall’azione di quegli enti locali che, ad oggi, sono rimasti ai margini – quasi muti spettatori – della vicenda.
È da chiedersi se le amministrazioni locali del Sud siano effettivamente preparate a reggere l’impatto della riforma, se i servizi sociali (dei comuni calabresi e della Regione) siano pronti a fronteggiare l’onda d’urto di centinaia di migliaia di prossimi patti per l’inclusione, se i CPI dispongano di risorse e di competenze per gestire i centinaia di migliaia di prossimi patti per il lavoro (art. 4 del decreto, in particolare da comma 11 a comma 15).
Il dibattito parlamentare potrà introdurre degli aggiustamenti alla normativa sin qui predisposta, ma la vera sfida è già tutta nella capacità di azione degli enti locali, così che a risultare decisivo sarà l’impegno concreto e fattivo dei governi e degli apparati comunali e regionali, nonché dell’Anci.
Da studiosi, da cittadini attenti, da cultori della giustizia sociale, non possiamo che sollecitare questi soggetti ad una consapevole attivazione, così come non possiamo che richiamare le forze politiche e i cittadini a lavorare nell’approntamento di liste elettorali credibili e responsabili per le prossime tornate elettorali amministrative.
*Walter Nocito, Nicola Fiorita e Silvio Gambino, Università della Calabria
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