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«Perplessità e cautele sul Regionalismo differenziato»

di E. Caterini* ed E. Jorio*

Pubblicato il: 05/02/2019 – 16:54
«Perplessità e cautele sul Regionalismo differenziato»

Mancati appuntamenti e dolosi ritardi
Il 15 gennaio è trascorso senza che accadesse nulla. Senza che il Governo avesse definito l’istruttoria sulle proposte di disegno di legge governativo sul regionalismo differenziato, prioritariamente su quelle elaborate dal Veneto e dalla Lombardia.
Accadrà necessariamente alla scadenza del prossimo 15 febbraio prevista per la definizione delle Intese da perfezionare a cura dell’Esecutivo con le anzidette Regioni, Intese che si tradurranno nel disegno di legge governativo da sottoporre al voto delle Camere. Un appuntamento istituzionale molto importante, decisivo per il Paese dei prossimi dieci anni, soprattutto per la sua unità sostanziale e per la uniformità delle prestazioni essenziali esigibili dalla collettività nazionale.
La particolarità è che la sostanza della decisione spetta al Governo in armonia con le singole Regioni interessate, atteso che l’Intesa – regolata similmente al comma 3 dell’art. 8 della Costituzione, che afferisce a quelle costitutive dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose – esclude ogni potere emendativo del Parlamento, chiamato a decidere a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Insomma, le due Camere potranno approvare o meno quanto convenuto istituzionalmente dal Governo con la Regione interessata. Nel caso di disapprovazione il disegno di legge governativo potrà essere ridiscusso dalle parti e dunque riproposto al giudizio della Camera e del Senato della Repubblica secondo l’anzidetta procedura rinforzata.
Quanto appena descritto rappresenta il legittimo esercizio della potestas attribuita alle Regioni dalla Costituzione al comma terzo dell’art. 116.
Una corretta lettura del disposto costituzionale
Quanto all’art. 116 della Costituzione esso si presenta alquanto complesso. Nei tre commi di cui si compone dopo la revisione intervenuta il 2001 il costituente ha ritenuto scandire:
– nel primo, la speciale attribuzione ad alcune Regioni – con legge costituzionale del Parlamento secondo la procedura indicata nell’art. 138 della Carta – «di forme e condizioni particolari di autonomia»;
– nel secondo, la composizione del Trentino-Alto Adige/Sudtirol in due province autonome, in quanto tali dotati delle potestates riconosciute alle Regioni;
– nel terzo, la facultas delle restanti quindici Regioni di assumere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», legislativa amministrativa, e finanziaria, nelle materie della legislazione concorrente (di cui al terzo comma, dell’art. 117 Cost.) e in quelle della giustizia di pace, dell’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, materie – queste – di legislazione esclusiva dello Stato indicate nel secondo comma dell’art. medesimo alle lettere l), n) ed s).
Una evidente e pericolosa anomalia
Un’osservazione.
Secondo un’interpretazione letterale il terzo comma dell’art. 116 consentirebbe alla legge ordinaria rinforzata l’attribuzione di un’autonomia legislativa anche maggiore di quella attribuita alle Regioni speciali dagli Statuti approvati con legge costituzionale (1).
L’argomento apagogico dimostra che la lettera del precetto costituzionale consentirebbe alle quindici Regioni ordinarie di conseguire, su loro istanza, con legge rinforzata (ma non già costituzionale), e senza alcun limite, «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», seppure nelle materie anzidette. Ciò ab absurdo consentirebbe alle medesime una sorta di extra-specialità, potenzialmente più consistente di quella concessa alle cinque Regioni a statuto speciale dalle leggi costituzionali di approvazione degli Statuti.
Pertanto, mentre per le Regioni a statuto speciale la particolare forma e condizione di autonomia è fissata con legge costituzionale che ne definisce il livello massimo, le leggi ordinarie rinforzate potrebbero assegnare ben oltre quanto attribuito alle prime. Affidare ad una legge rinforzata ma ordinaria, senza le garanzie procedurali previste per le leggi costituzionali, anche tutte le competenze legislative previste nelle ben note 23 materie, con una conseguente possibile maggiore autonomia di quella attribuita alle Regioni a statuto speciale, rappresenterebbe un vistoso vulnus costituzionale tale da mettere in crisi la stessa specialità di Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige/Sudtirol e Val D’Aosta.
La condizione «privilegiata», a suo tempo finalizzata al superamento di particolari situazioni socio-economiche delle quali oggi è difficile spiegarne persino il mantenimento, incontra il limite dell’interesse nazionale e dell’interesse delle altre regioni. Questi non possono non essere estesi anche all’autonomia del regionalismo differenziato delle regioni ordinarie.
Pertanto, gli «ulteriori» poteri di autonomia devono essere scrutinati, singolarmente e complessivamente, alla luce dell’interesse nazionale e dell’interesse delle altre regioni. Ove per questi deve intendersi l’interesse all’unità giuridico-economica del Paese e l’interesse della persona ai livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali.
Occorre una diffusa conoscenza dei contenuti e di ciò che potrà accadere
Il 15 gennaio è trascorso senza che il Governo avesse definito l’istruttoria delle tre proposte di legge sul regionalismo differenziato elaborate dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna.
Decorsa invano la prima scadenza, anche quella del 15 febbraio è differita. Quest’ultima è prevista per la definizione delle Intese tra l’Esecutivo e le Regioni, Intese inclusive dei disegni di legge governativi da sottoporre all’esame delle Camere.
Tali Intese presentano un termine finale fissato in dieci anni. Ciò allo scopo di valutare l’efficacia e la congruità dell’opzione legislativa esercitata, deciderne l’eventuale consensuale rinegoziazione in attuazione di rapporto, ovvero alla scadenza decennale, oppure ancora, estinguere gli effetti. Un termine espresso in tutti e tre gli Accordi preliminari (art. 2) sottoscritti il 28 febbraio 2018 dal Governo Gentiloni e dalle tre Regioni.
Le spinte leghiste e i freni pentastellati
Nel mentre si registrano assicurazioni pubbliche tra i partner di governo, emergono divergenze nei Cinquestelle, soprattutto tra quanti hanno ricevuto consenso nel Mezzogiorno, accorti ad evitare perdite elettorali. Quella parte emarginata del Paese – che di qui a poco vedrà l’Abruzzo, la Basilicata e poi la Calabria impegnate anche nelle elezioni regionali – percepisce il regionalismo differenziato come il rischio di aggravamento del proprio ritardo di sviluppo, aggravamento causato da un’attuazione della Costituzione pensata male e attuata peggio.
Trascorso, senza esiti, il termine del 15 gennaio per definire la fase istruttoria, nell’inevitabile presagio che non potrà accadere alcunché il 15 febbraio, Salvini e Giorgetti promuovono una rinnovata spinta politica, preoccupati dall’inaspettato rallentamento dovuto alle indecisioni del M5S. Quest’ultimo propende per non dare un pedissequo seguito alle istanze della «macroregione politica» a guida leghista.
Avanzano valutazioni di maggiore ponderazione rispetto all’istanza indiscriminata che contiene un inevitabile «esproprio» allo Stato delle competenze, per esempio, in materia di tutela dei beni culturali, di grandi reti di trasporto e soprattutto di sanità, sulla quale la ministra Grillo non intende cedere troppo, specie dopo aver preteso e ottenuto il superamento dei parametri del tetto di spesa per il personale del Servizio sanitario nazionale.
La posta in gioco è altissima: è in gioco la vita delle persone
Il regionalismo differenziato non è cosa da poco, da essere definito con poca dialettica e all’insegna del «se non passa andiamo a casa con conseguente sorpasso nell’ottenimento del consenso popolare».
Per fare sì che si realizzi, e bene, si rende necessaria la completa attuazione del federalismo fiscale, ovverosia dell’art. 119 della Costituzione e della perequazione in primis, nonché la definizione ad opera dello Stato dei livelli essenziali di prestazioni, senza i quali si mette a rischio la pari dignità sociale dei cittadini (art. 3 co. 1 cost.). Più precisamente, siffatto processo derogativo alle regole ordinarie di esercizio del potere legislativo rischia di essere portato a termine non senza determinare danni irreparabili a quella parte del Paese «a secco» di diritti sociali e civili.
Per fare ciò necessita la determinazione qualitativa dei Lep e quella quantitativa dei fabbisogni standard, posti a garanzia dell’erogazione delle funzioni fondamentali degli enti Locali (soprattutto i Comuni), nonché del binomio costi/fabbisogni standard (sino ad oggi neppure colpevolmente pensati), posti a garanzia dei livelli delle prestazioni essenziali concernenti i diritti sociali, primi fra tutti, la salute, l’assistenza sociale, la scuola e i trasporti pubblici locali.
Il Paese e le persone vanno protetti ad ogni costo
Sta accadendo ciò che sarebbe mai dovuto accadere. Viene messo in discussione, per un agonismo politico che rincorre l’affermazione del primato di alcuni interessi, tutto quanto necessario per assicurare uniformemente alla collettività nazionale ciò che è indispensabile alla vita di ognuno. In breve, così facendo si mettono a rischio non solo l’unità giuridica ed economica della Repubblica ma anche il valore della persona.
Quanto si registra costituisce un attentato alle regole costituzionali che sono scritte per assicurare ovunque e a chiunque l’esigibilità dei diritti civili e sociali, resi irraggiungibili dall’attivazione dell’attuale proposta di regionalismo differenziato. Senza i costi/fabbisogni standard, nelle due diverse configurazioni metodologiche, e la perequazione, l’interesse nazionale, delle altre regioni e il valore della persona saranno vulnerati. La perequazione dev’essere al 100% per sanità, assistenza, istruzione e trasporto pubblico locale, mentre dev’essere rapportata alla capacità fiscale media per tutto il resto. Nulla di diverso è, infatti, previsto né nella Costituzione e neppure nella legge delega (42/2009) attuativa dall’art. 119 e suoi decreti delegati del 2011.
Senza la perequazione a regime non è possibile realizzare un regionalismo differenziato «sostenibile». Il rischio è la messa in pericolo dell’esistenza libera e dignitosa di una parte consistente del Paese. Una perequazione assicurata dallo Stato con le proprie entrate erariali non già dalle risorse delle altre Regioni, tanto da essere caratterizzata per la sua verticalità (Stato → Regioni bisognose) e non già da alcuna orizzontalità (Regione ricca → Regione povera). Una differenza che indusse la Lega Nord di Bossi a reclamare, e quella attuale di Salvini a quasi realizzare, un regionalismo differenziato «rivendicativo», ossia contro il sedicente «esproprio» del Sud parassita ai danni del Nord produttivo.
Occorre fare prevalere le ragioni dell’interesse generale
Il percorso del regionalismo differenziato è stato intrapreso ed è oramai inarrestabile. Occorre, pertanto, decidere come realizzarlo al meglio nell’interesse delle persone e di un Paese sempre più globale e multiculturale.
Da qui, la diversità degli impegni che la politica è chiamata a privilegiare.
Necessita, pertanto, che:
– le Regioni protese ad acquisire il massimo livello di autonomia legislativa e finanziaria siano ricondotte nell’alveo della Costituzione Repubblicana al fine di prevenire irreversibili fratture del Paese;
– le Regioni che non hanno ancora formalizzato accordi con il Governo. ovvero non hanno presentato istanze (Abruzzo, Calabria e Molise), valutino le condizioni socio-economiche che motivano l’interesse generale alla differenziazione.
Occorre un’azione responsabile che chiarisca i vantaggi e le criticità per gli italiani del regionalismo differenziato, che eviti rappresentazioni manichee da ambo le parti e valuti le specificità regionali per definire la giusta misura di regionalismo nel rispetto dei limiti posti dalla Costituzione.
(1) Adottate da ciascuna delle Camere a maggioranza assoluta dei loro rispettivi componenti, in due distinte sessioni, da perfezionarsi con un intervallo non minore di tre mesi e confermata con successivo referendum, a meno che non abbia conseguito una maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti.

*Presidente e vice presidente
Fondazione TrasPArenza – Cosenza

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