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«Regionalismo differenziato: il caso della sanità»-TABELLA

di E. Caterini ed E. Jorio*

Pubblicato il: 09/02/2019 – 12:14
«Regionalismo differenziato: il caso della sanità»-TABELLA

IL RITARDO COLPEVOLE DEL DISAGIO
Diciotto anni (o quasi) di assordante silenzio, anche da parte di chi oggi strilla all’attentato alla Costituzione, sulla opportunità offerta (art.116, comma terzo) dalla revisione costituzionale del 2001 alle quindici (15) Regioni a statuto ordinario di ampliare le proprie competenze legislative esclusive. Ovverosia di riassumere in capo ad esse sino a tutte le diciannove (19) materie che l’art.117, comma terzo, della Costituzione assegna alla legislazione concorrente oltre a quattro (4) di quelle attribuite alla competenza esclusiva dello Stato. Più precisamente, alle materie individuate nelle lettere l), n) ed s) del comma secondo dello stesso art.117 Cost.
Ciò è stato (sino ad oggi seppure non utilmente) possibile e lo sarà sino a quando la Costituzione rimarrà tale nonché in presenza di un Governo disponibile (così come sono stati gli ultimi due ancorché con diverse modalità) a negoziare preventivamente un’apposita Intesa, il cui contenuto, trasformato in disegno di legge governativo, consegua in Parlamento il voto favorevole della maggioranza assoluta dei suoi componenti. Non solo. Sino a quando saranno in vigore la legge 42/209 e i suoi decreti delegati del 2011, tutti attuativi del novellato art. 119 della Costituzione, voluta dal centrosinistra dell’epoca e confermata nell’apposito referendum celebrato il 7 ottobre 2001 a mente dell’art. 138 della Carta.
REGIONI ALLA RICERCA DI UNA NUOVA SPECIALITÀ
Diverse le perplessità sollevate al riguardo del regionalismo differenziato, esplicitate nel Paper n. 2/2019 che la Fondazione ha provveduto a pubblicare in relazione all’attuazione dell’art.116, comma terzo, della Costituzione.
Secondo un’interpretazione letterale lo stesso consentirebbe ad una legge ordinaria, ancorché rinforzata, l’attribuzione alle Regioni richiedenti di un’autonomia legislativa anche maggiore di quella riconosciuta alle Regioni speciali dagli Statuti approvati, si badi bene, con leggi costituzionali, in quanto tali adottate da ciascuna delle Camere a maggioranza assoluta dei loro rispettivi componenti, in due distinte sessioni, da perfezionarsi con un intervallo non minore di tre mesi e confermata con successivo referendum, a meno che non abbia conseguito una maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti.
Un siffatto assunto dimostra che quanto facoltizzato dal terzo comma dell’art. 116 Cost. consentirebbe alle quindici Regioni ordinarie di conseguire, su loro specifica istanza, con legge rinforzata (ma non già costituzionale) e senza alcun limite «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», seppure limitatamente alle materie anzidette. Ciò ab absurdo attribuirebbe alle medesime una sorta di extra-specialità, potenzialmente più consistente di quella concessa alle cinque Regioni a statuto speciale dalle leggi costituzionali di approvazione dei rispettivi Statuti.
Pertanto, mentre per le Regioni a statuto speciale la particolare forma e condizione di autonomia è fissata con legge costituzionale che ne definisce il livello massimo, le leggi ordinarie rinforzate, approvate a mente dell’art. 116, comma terzo, della Costituzione, potrebbero assegnare alle Regioni ordinarie ben oltre quanto attribuito a quelle speciali. Affidare ad una legge rinforzata ma ordinaria, senza le garanzie procedurali previste per le leggi costituzionali, tutte le competenze legislative previste nelle ben note ventitre (23) materie, con una conseguente possibile maggiore autonomia di quella attribuita alle Regioni a statuto speciale, rappresenterebbe un vistoso vulnus costituzionale tale da mettere in crisi la stessa specialità di Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige/Sudtirol e Val D’Aosta.
Le condizioni di assoluto «privilegio», a suo tempo finalizzate al superamento di particolari situazioni socio-economiche vissute dalle attuali cinque Regioni a regime speciale, delle quali oggi è difficile spiegarne persino il mantenimento, incontrano il limite dell’interesse nazionale e dell’interesse delle altre Regioni. Va da sé che queste non possano non essere estese anche all’autonomia del regionalismo differenziato eventualmente in godimento delle Regioni ordinarie.
Pertanto, gli «ulteriori» poteri di autonomia devono essere scrutinati da parte del Governo, singolarmente e complessivamente, alla luce dell’interesse nazionale e dell’interesse delle altre Regioni. Ove per questi deve intendersi l’interesse all’unità giuridico-economica del Paese e l’interesse della persona alla percezione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali.
LOMBARDIA, VENETO ED EMILIA-ROMAGNA: IL PUNTO NAVE
Vediamo in cosa si traduce quanto oggi in itinere e qual è oggi lo stato dell’arte delle procedure intraprese dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.
Preliminarmente, occorre sottolineare che a conclusione positiva della procedura prevista nell’art.116, comma terzo, della Costituzione – si badi bene, da perfezionarsi con una legge ordinaria rinforzata e non già con una legge costituzionale da approvarsi con il particolare iter individuato dall’art. 138 Cost. – le Regioni beneficiarie potranno legiferare in tutte le materie che riterranno sottrarre, in concorso con l’Esecutivo e il Parlamento chiamato a ratificare il ddl governativo, alla legislazione concorrente e a quella esclusiva dello Stato, sia in termini di principi fondamentali che nel dettaglio.
Tutto questo a seguito della conclusione favorevole dell’anzidetta complessa procedura che dovrebbe perfezionarsi con una legge approvata dal Parlamento, senza che questi abbia potuto nell’esercizio delle sue prerogative legislative emendare in alcun modo il disegno di legge governativo, dal momento che la prevista Intesa è da equipararsi a quelle individuate nell’art. 8, comma 3, della Costituzione regolative dei rapporti dello Stato con le confessioni religiose. Una Intesa che – stante agli accordi preliminari stipulati il 28 febbraio 2018 tra il governo Gentiloni e le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (che si suppone siano stati in pochi a leggere e approfondire tra quelli che scrivono, anche ripetutamente, sull’argomento!) – avrà una efficacia a tempo determinato, fissato nella durata di soli dieci anni, a termine dei quali quanto convenuto e sancito nella legge rinforzata dovrà essere rinegoziato ovvero, in difetto, cessare di ogni sua validità. Un epilogo che, nell’ipotesi di cessazione dell’efficacia di quanto regolato dalla legge rinforzata, comporterà un disastro dalle proporzioni notevoli, sia quanto ad organizzazione funzionale nel frattempo determinatasi che relativamente al riparto del finanziamento pubblico.
Fatte queste doverose premesse – tenuto conto che nelle aspettative delle tre Regioni richiedenti e avanti nelle «trattative» con il Governo si evidenziano attribuzioni differenziate delle materie ovvero di parti di esse, scandite nello specifico, e di conseguenza delle risorse relative, avanzate ai sensi dell’art. 14 della legge 42/09 che prevede che con l’anzidetta legge rinforzata «si provvede altresì all’assegnazione delle necessarie risorse finanziarie, in conformità all’art. 119 della Costituzione» – si rende necessario comprendere cosa accadrà se tutto «filerà liscio», prima con il Governo nel perfezionare l’Intesa e poi nelle due Camere. Meglio, occorrerebbe sin da subito comprendere quali saranno le ricadute concrete nelle materie devolute (sanità in primis) se dovesse perfezionarsi la legge introduttiva del regionalismo differenziato, ben sapendo che – nel caso contrario, ovverosia di non approvazione parlamentare del ddl governativo condiviso con le Regioni interessate – le cose rimarranno così come sono.
In una tale ottica – volta all’approfondimento del fenomeno in atto, dal momento che nella prima fase della formalizzazione delle tre Regioni in corsa di conclusione dell’Intesa con il Governo, ciascuna di esse ha rivendicato nell’immediato l’esercizio esclusivo afferente a sole cinque materie (Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, Istruzione, Rapporti internazionali e con l’Unione Europea, Tutela del lavoro e Tutela della salute) – abbiamo ritenuto affrontare prioritariamente quello che riguarda quest’ultima, rinviando ad altri Paper la trattazione delle altre.
LA SANITÀ: LE TRE PROPOSTE DA VICINO
Le proposte regionali, formalizzate secondo diverse modalità a seguito dei referendum celebrati il 22 ottobre 2017, si distinguono sia per forma che per contenuti specifici, soprattutto quelle prodotte dalla Lombardia e dal Veneto rispetto a quella elaborata dall’Emilia-Romagna
L’ipotesi legislativa proposta dalla Lombardia affronta il tema della tutela della salute nell’art. 24 del progetto complessivo riguardante le ventitre (23) materie rivendicate; quella veneta lo fa nell’art. 25 di un altrettanto complessivo testo regolativo; l’elaborato dell’Emilia-Romagna propone invece di ridisciplinare la salute regionale secondo le regole individuate in un apposito disposto composto da otto precetti.
Il tutto, per comodità del lettore, riassunto nell’apposito compendio comparativo rappresentato in calce, utile per apprendere nel dettaglio quanto oggi è in corso di trattativa tra le anzidette Regioni richiedenti una maggiore autonomia legislativa e finanziaria e il Governo in carica.
Prima di affrontare la lettura delle «richieste» regionali di incremento della loro competenza legislativa esclusiva e delle risorse che ne deriverebbero si rende, comunque, necessario scandire alcune osservazioni preliminari, funzionali a rendere più incisiva l’analisi dei contenuti delle tre proposte regionali ma soprattutto scevra dall’ingombro delle eccezioni politiche che stanno deviando, per molti versi, il significato della portata giuridica del fenomeno. Ciò allo scopo di evidenziare le reali ricadute sulla salute, di quella che verrebbe concretamente percepita dalle collettività di riferimento, e di sottolineare, ed è quello che è più importante, i riflessi negativi verosimilmente producibili nei confronti delle altre Regioni, specie di quelle con una organizzazione sociosanitaria più debole, afflitte sensibilmente da una mobilità passiva di un valore complessivamente miliardario.
La disputa in atto nel Paese tra i «sostenitori» e i «contrari» al regionalismo differenziato, dei quali taluni lo sono a prescindere dalle ragioni tecniche, è alquanto superficiale nei suoi contenuti e nel presagire ciò che muterà nel sistema erogativo delle prestazioni essenziali sanitarie.
UNA COMPARTECIPAZIONE «DISPOTICA» E NON MOTIVATA
La massima attenzione viene, infatti, riservata unicamente alla previsioni rappresentate nell’originaria «Proposta di legge statale n. 43» licenziata dal Consiglio regionale del Veneto a fine 2017 che – all’art. 2 titolato “Attribuzione di risorse ai sensi dell’art. 119 della Costituzione” – individua la previsione di una «compartecipazione» ai tributi erariali riscossi nel proprio territorio pari al 90%, riferibile al gettito Irpef, Ires e Iva al fine di finanziare le ventitre (23) materie, rivendicate sul piano legislativo esclusivo. In proposito, così come viene motivata, l’eccezione primaria di coloro che si dichiarano contrari a priori al regionalismo differenziato veneto così come impostato – senza che da parte dei medesimi venga tuttavia rappresentata alcuna doverosa critica di merito e di efficienza erogativa dei livelli essenziali di assistenza – risulta segnatamente generalizzata, seppure condivisibile nella sua più generale portata, tendente a sottrarre comunque al gettito erariale prodotto sul territorio di riferimento una consistente porzione da destinare a cura dello Stato ad interventi redistributivi. Invero, essa eccezione non è affatto esplicativa di quelle censure che dovrebbero essere, invece, naturalmente rappresentate nei confronti sia del quantum (90% del gettito erariale) che del come (a titolo di compartecipazione) rivendicati nella proposta veneta riferibili al dettato costituzionale di cui all’art. 119 della Carta. Ciò in quanto soprattutto non rapportata e quindi non direttamente riconducibile alle materie ovvero alla parte di esse che la Regione stessa vorrebbe riportare nelle proprie competenze legislative esclusive senza provare al riguardo la cosiddetta pesatura equivalente.
Una siffatta rivendicazione valoriale, corrispondente ai ben noti 9/10, è stata infatti determinata tout court è non già rapportata – tenuto conto che comunque la compartecipazione all’Iva goduta dalle Regioni per il finanziamento della sanità pesa oggi ben oltre il 58% – alle nuove rivendicate competenze recate nella proposta veneta, soprattutto non direttamente riferibile alle specifiche neo-attribuzioni sulle quali v’è la pretesa di esercitare una legislazione esclusiva. Un esercizio legislativo che dovrà essere nell’eventualità commisurato alla determinazione dei principi fondamentali cui doversi attenere nella legge di dettaglio destinata alla riorganizzazione del sistema regionale della salute.
Un limite, questo, rappresentato da una eccessiva ovvero non motivata pretesa economica che costituisce un handicap procedurale e di merito non di poco conto che renderà segnatamente difficile ogni condivisione da parte dell’Esecutivo della proposta redatta dalla Regione Veneto, tanto da non «conquistare», nella sua attuale lettera, la definizione del disegno di legge governativo e il successivo «pedissequo» consenso parlamentare.
In relazione, alla riferita pretesa veneta della compartecipazione del 90% sul gettito complessivo erariale prodotto nel proprio territorio regionale è da specificare una ulteriore eccezione. Essa è riferita alla entità della percentuale rivendicata che, attesa la sua abnormità, è difficile che possa essere considerata una «compartecipazione» in senso stretto. Una misura così assoluta farebbe, difatti, venire meno il significato al termine usato dal costituente al secondo comma, ultimo periodo, dell’art. 119 della Carta che, data la sua consistente entità, sembra simulare un trasferimento dello Stato in favore della Regione interessata, esplicitamente abrogato per la sanità nella sua fattispecie giuridico-economica presa in considerazione dall’art. 1 del d.lgs. 56/2000, ma soprattutto non affatto previsto tra gli strumenti di finanziamento del sistema autonomistico territoriale novellati nella revisione costituzionale del 2001.
COSA CAMBIEREBBE NELLA SANITÀ RISPETTO AD OGGI
Quanto al contenuto specifico delle attribuzioni rivendicate in materia sanitaria dalle tre Regioni impegnate nelle trattative con il Governo – finalizzate alla definizione del negoziato da tradurre in Intesa da trasformare il disegno di legge governativo da approvare in Parlamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti – è appena il caso di rappresentare quanto segue.
Tutte e tre le ipotesi, fosse anche nella diversità delle forme evidenziabili tra quelle elaborate dal Veneto e dalla Lombardia con quella perfezionata dall’Emilia-Romagna, sono tutte protese a sconvolgere, attraverso l’acquisizione dell’attribuzione legislativa esclusiva della materia della tutela della salute, l’attuale assetto organizzativo dei rispettivi servizi sanitari regionali.
Si profilano, infatti, a seguito della definizione favorevole della procedura ex art.116, comma terzo, segnati cambiamenti nella definizione del sistema di governance complessiva, con ricodificazione del sistema aziendalistico che attualmente vi sovrintende e di quello dettato dalla disciplina nazionale prevista per l’individuazione del management.
Stessa sorte avrà tutto il resto. Probabilmente, si registrerà un complessivo stravolgimento, di quanto disposto nel Titolo II, disciplinante le «Prestazioni», del vigente decreto legislativo 502/92.
Pertanto si profilano, specie nel Veneto, novità importanti in materia di disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta che da personale convenzionato, caratterizzato dall’intrattenimento di un rapporto di lavoro di tipo parasubordinato, potrebbe essere trasformato in personale organico alle dipendenze del servizio sanitario di riferimento. Nondimeno, si registrerà, verosimilmente, una trasformazione radicale anche del sistema fondato sulle cosiddette 3A, sia dalla rinnovata regolazione del rilascio dell’accreditamento, che potrebbe andare ben oltre l’attuale tipologia istituzionale, che della definizione e stipulazione, rispettivamente, degli accordi tra enti pubblici e contratti con gli erogatori privati, finalizzati alla compravendita di prestazioni sia ambulatoriali che spedalizzate nonché della rivisitazione dell’attuale sistema della relativa remunerazione tariffaria. Ulteriori novità potrebbero anche riguardare la disciplina del servizio farmaceutico con riferimento, altresì, all’esercizio delle farmacie, siano esse pubbliche che private, tanto da potere codificare una loro diretta partecipazione, con un conseguente significativo ruolo collaborativo, nell’ambito dell’assistenza primaria, che potrebbe assumere una diversità organizzativa rispetto a quella sancita dal decreto legge 158/2012.
Ovviamente, il tutto da attuare a seguito – pena una tutela della salute ulteriormente discriminate per il Mezzogiorno spesso del tutto privo, fra l’altro, delle strutture efficienti altrove rinvenibili e soffocato da piani di rientro dalla durata eterna – della definizione dei livelli essenziali di assistenza socio-sanitaria e della costituzione del fondo perequativo, entrambi garanti del welfare assistenziale.

* docenti UniCal e Fondazione TrasPArenza

Le proposta delle Regioni

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