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«Federalismo e regionalismo tra norme e scelte politiche»

di Silvio Gambino*

Pubblicato il: 15/02/2019 – 19:12
«Federalismo e regionalismo tra norme e scelte politiche»

Federalismo fiscale e regionalismo differenziato: vincoli costituzionali e volontà politica
1. Il (lungo) titolo assegnato a questa (breve) riflessione mira a proporre al lettore una sintesi molto essenziale di quanto sarà di seguito sottolineato. A settant’anni dall’adozione della Costituzione repubblicana, i cittadini italiani hanno potuto avvicinarsi al tema dell’autonomia regionale (e di quella locale), cogliendola nei suoi principi costitutivi (art. 5 e titolo V della Costituzione) e nella concreta dinamica attuativa. Tale dinamica, peraltro, nel primo trentennio di attuazione costituzionale, ha visto un vero e proprio ‘congelamento’ dell’autonomia regionale e una dequotazione di quella locale, l’una e l’altra asservite al primato rivendicato dal sistema dei partiti politici.
Se si fa salva la specialità prevista per le (cinque) regioni a statuto speciale, può osservarsi che le regioni ordinarie e le autonomie locali hanno registrato, nel fondo, linee evolutive ispirate ad un sostanziale uniformismo e a una differenziazione debole nei relativi contenuti (competenziali e organizzativi).
In una simile cornice politica e istituzionale, occorre porsi quegli interrogativi essnziali che da sempre vengono sollevati quando si riflette sui rapporti fra le forme istituzionali concrete del decentramento territoriale e le problematiche della loro compatibilità con i princìpi costituzionali posti a fondamento dello Stato costituzionale repubblicano. Per quanto riguarda il sistema regionale e locale, si tratta, come noto, degli artt. 1-13 e l’intero Tit. V Cost.
Ai fini di questa riflessione, fra di essi, riveste un ruolo centrale il principio di eguaglianza (formale e sostanziale, inter-personale e inter-territoriale) e il principio personalista, l’uno e l’altro posti alla base della Costituzione repubblicana come principi fondanti (e fondamentali) dell’intero ordinamento repubblicano.
In quanto tali, pertanto, essi si estendono – segnandone il limite non eludibile – alle autonomie territoriali nella concreta estrinsecazione dei loro poteri e dunque, per quanto ora ci riguarda, nella concreta relazione (ora da prevedersi in sede di attuazione delle procedure attuative dell’art. 116.3 Cost. in tema di regionalismo differenziato) fra la distribuzione territoriale delle competenze (concorrenti), l’esercizio dell’autonomia di entrata e di spesa da parte degli enti territoriali e la perequazione delle risorse finanziarie (in particolare in favore delle regioni fiscalmente deboli). Tale principio è chiamato ad assicurare che l’autonomia territoriale consentita dalla richiamata procedura costituzionale non si possa giammai tradurre nella limitazione delle prestazioni amministrative relative ai diritti fondamentali (sociali ma non solo), a prescindere dal loro territorio di residenza. Parliamo qui, in particolare (ma l’elenco è meramente indicativo) del diritto alla salute, del diritto alla istruzione, del diritto alla assistenza sociale e alla previdenza che costituiscono i pilastri dello Stato sociale di diritto, nonché attuazioni obbligatorie del principio di eguaglianza (art. 3.2 Cost.) e del principio solidaristico (art. 2 Cost.).
Tali principi (unitamente agli altri accolti nella rubrica dei Principi fondamentali, artt. 1/12 Cost.) informano di sé l’intera architettura costituzionale repubblicana (sia prima che dopo la revisione costituzionale del Titolo V, intervenuta negli anni 1999/2001), portando ad interrogarsi in modo problematico sugli ambiti e sui limiti del regionalismo inteso non come mera riorganizzazione delle competenze statali fra centro e periferia quanto piuttosto in termini di effettività dei diritti (civili e sociali), prescindendo dai confini territoriali dei governi regionali e locali. Un tema – quest’ultimo – che, a partire dalla riforma del Tit. V Cost., ritroviamo al centro del dibattito pubblico e dell’analisi costituzionalistica.
Da almeno un ventennio, peraltro, tale tema si pone alla base di non banali tentativi di ‘sbrego istituzionale’, di lacerazione del tessuto politico/civile del Paese, che hanno portato a galla una gracilità di fondo del processo di unificazione politica del Paese (quasi 160 anni orsono), che assume le forme di una non risolta ‘questione meridionale’, cui ora si aggiunge una parimenti problematica ‘questione settentrionale’.
Tale discutibile progetto di dualismo territoriale del Paese, come si ricorda, era inizialmente partito con le minacce politiche di secessione della ‘Padania’ (Bossi), proseguendo con l’adozione della legge sul federalismo fiscale (legge Calderoli, 42/2009, solo apparentemente più ragionevole del leghismo più hard), e arenandosi infine nelle terre mobili della ‘resistenza’ del sistema regionale/locale, per riemergere infine nelle forme (discutibili nei contenuti materiali e per la procedura prevista) con il progetto di regionalismo asimmetrico delle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
2. Poiché le bozze di quest’ultimo provvedimento legislativo (da adottarsi a maggioranza assoluta dei componenti le Camere, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata) registrano il limite che era già stato evidenziato con riguardo alla legge sul federalismo fiscale, di seguito saranno proposte alcune riflessioni di sintesi e qualche interrogativo sugli stessi dubbi di legittimità di quella legge, di modo che possano costituire oggetto di riflessione, per chi lo voglia, nel vaglio del progetto di regionalismo differenziato appena lo stesso troverà l’accordo fra le due forze politiche di governo.
La legge sul federalismo fiscale (legge 42/2019), con le sue poche luci e le sue molte ombre, pertanto, può essere ora utilmente richiamata, sia pure nei suoi principi essenziali.
Se riguardata rispetto alle minacce secessive, come non era scontato che accadesse in quegli anni di turbolenza politica, quel testo legislativo (cui è comunque mancata la piena attuazione) si faceva comunque carico di tutelare i ‘livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali’. Rispetto a tali profili, pertanto, la legge si presentava rispettosa delle previsioni di cui all’art. 117.2.m della Costituzione. In essa, tuttavia, continuavano a restare senza la ‘integrale copertura’ (prevista dall’art. 119.4 Cost.), le rimanenti funzioni dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni; per tale ragione non poteva che cogliersene il contrasto con lo spirito e il testo della Costituzione. Di qui le luci e le ombre di cui si è parlato.
Nella Costituzione repubblicana sussiste una relazione molto stretta fra modello di ‘Stato sociale’ ed effettività dei diritti (sociali, ma non solo). In altri termini, in tale modello di Stato, il legislatore statale e quello regionale non possono esercitare la loro funzione legislativa omettendo di legiferare quando la Costituzione lo preveda o perfino adottando decisioni legislative in contrasto con le previsioni costituzionali in tema di Principi fondamentali (artt 1-12) e di diritti fondamentali (civili e sociali).
La eventuale omissione del legislatore (ma da tempo la giurisprudenza costituzionale sul punto è piuttosto elusiva) e la violazione dei principi fondamentali della Costituzione e delle disposizioni in tema di diritti fondamentali conoscono la sola censura del sindacato di costituzionalità da parte della Corte costituzionale.
Non deve parimenti omettersi di richiamare come il testo costituzionale preveda procedure di controllo della costituzionalità delle leggi interne alla Camere che sono nelle condizioni di funzionare pienamente ma inevitabilmente risultano condizionate dalle maggioranze politiche (quanto mai problematiche nel quadro del ‘parlamentarismo maggioritario’).
Da qui la stretta relazione che non può non riguardare il presente legislatore sul ‘regionalismo differenziato’ al momento di interrogarsi se le proprie scelte di riorganizzazione delle competenze legislative fra Stato e Regioni (e fra le tre Regioni) appaiono capaci di assicurare, all’interno di ogni singola regione e nelle altre regioni, la pienezza della tutela costituzionale assicurata ai livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali.
Lo ‘statuto di cittadinanza’, pertanto, costituisce il limite non aggirabile del processo legislativo (di attuazione dell’art. 116.3 Cost.) ora in corso da parte delle tre richiamate regioni. Non si nega, in altri termini, che – sussistendone i presupposti costituzionali e nel rispetto della procedura ivi indicata – le regioni interessate possano attivarsi per conseguire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Rimane tuttavia il limite del rispetto dei principi sanciti nell’art. 119 Cost., come più in generale per l’intero ordinamento repubblicano permangono i limiti costituiti dal rispetto dei principi fondamentali e dalla tutela della effettività dei diritti fondamentali della persona.
L’approccio obbligato da seguire per accostarci alle problematiche del federalismo (fiscale) e del regionalismo differenziato, pertanto, è quello che mette al centro dell’analisi i rapporti fra federalismo/regionalismo e diritti di cittadinanza.
Rispetto a tali rapporti, acquistano indiscutibile centralità le risorse necessarie all’esercizio delle competenze riconosciute alle regioni, sguarnite da norme costituzionali espresse di garanzia, almeno relativamente alla ‘perequazione finanziaria’, che per questo risulterà difficilmente giustiziabile restando affidata alla negoziazione politica all’interno della Conferenza Stato-Regioni. Una perequazione che, se individuata nella forma della sola redistribuzione compensativa, non potrà porsi come garante della esigibilità dei Livelli Essenziali delle Prestazioni afferenti la sanità, il sociale, la scuola e il trasporto pubblico locale. Garanzia – quest’ultima, come abbiamo ripetuto – pretesa dalla Costituzione (art. 117.2.m; art. 119.3).
Il profilo centrale del tema (tanto, ieri, con riguardo alla legge sul federalismo fiscale, tanto, oggi, sul regionalismo differenziato) è rappresentato dall’interrogativo (e dalle relative risposte) che riguarda la compatibilità del nuovo assetto delle competenze regionali risultanti dalla procedura seguita (art. 116.3 Cost.) con la garanzia del principio di eguaglianza fra i cittadini e, con esso, della garanzia dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale).
Nell’assegnare alla legislazione ‘esclusiva’ dello Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, la disposizione costituzionale prima richiamata (art. 117.2.m Cost.) mira a garantire la garanzia del principio di eguaglianza di fronte alla legge “su tutto il territorio nazionale”.
Si ponevano, dunque, (e si pongono fattualmente) come evenienze possibili la lesione del principio di eguaglianza dei cittadini all’interno di ogni singola Regione ma (soprattutto) con riferimento al luogo di residenza.
È soprattutto rispetto a tale possibile diseguaglianza che costituisce garanzia dei diritti di cittadinanza la richiamata previsione costituzionale, nonché quella dell’ulteriore limite costituito dai ‘princìpi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato’ con riferimento ai limiti conosciuti dalle competenze concorrenti ed esclusive delle Regioni. Tematica – questa – che risulterà indubbiamente fondamentale nell’ottica delle garanzie giurisdizionali nei confronti delle asimmetrie competenziali che saranno previste nel regionalismo differenziato rispetto ai principi costituzionali di garanzia.
Nell’attuazione del principio di solidarietà, in tal senso, alla ‘Repubblica’ spetta di far valere, a titolo di solidarietà e di ‘coesione sociale’, tutte quelle garanzie che concorrono, con il principio di eguaglianza sostanziale, a superare le diseguaglianze originate nel sistema economico e sociale, rimuovendone gli squilibri e favorendo l’effettivo esercizio dei diritti della persona.
Al legislatore (statale e regionale) e al rimanente sistema autonomistico della Repubblica, nell’esercizio dei poteri normativi di cui sono rispettivamente attributari in via costituzionale, compete la tutela dei LEP concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali.
Se ne può concludere che tale disposizione costituzionale trova la sua motivazione nell’esigenza di rendere esplicito che il quadro costituzionale dei princìpi fondamentali non ha registrato fin qui (come non era possibile che accadesse, nel quadro di un costituzionalismo di tipo rigido) modifiche di pregio né potranno essere essere introdotti nuovi regimi legislativi nel riparto competenziale che mettano in questione un simile assetto.
In tale ottica, l’ordinamento costituzionale registra i soli limiti – ormai pienamente costituzionalizzati nell’art. 117.1 Cost. – posti dal rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Può ora sottolinearsi come le questioni (di interpretazione) sollevate dal nuovo testo costituzionale rispetto agli indirizzi legislativi in corso (regionalismo differenziato) e a quelli risultati fallimentari (federalismo fiscale) non concernono tanto la mera ratio della richiamata disposizione quanto piuttosto i relativi contenuti materiali, e quindi la tipologia dei diritti civili e sociali, da garantirsi su tutto il territorio nazionale. La legislazione ‘concorrente’ nelle nuove materie di cui risultano attributarie le Regioni (soprattutto tutela della salute, istruzione, tutela e sicurezza del lavoro) e quella attribuita residualmente (assistenza sociale) dovrà esercitarsi senza mettere in questione lo ‘statuto della cittadinanza’, che dovrà restare ‘nazionale’ e ‘sociale’, assicurando, in tal modo, i LEP in materia di diritti civili e sociali. Ciò che costituisce limite per lo Stato nella garanzia dello ‘statuto di cittadinanza’, naturalmente costituisce limite anche nel rapporto con le altre regioni che persegnano la procedura della intesa di cui all’art. 116.3 Cost.
In conclusione, siamo in presenza di un nuovo quadro costituzionale, nel quale si è aperto per le Regioni un nuovo ambito regolativo e di garanzie in ordine alla materia dei diritti ma, al contempo, si è confermata per lo Stato la competenza a intervenire in tale disciplina regionale, sia attraverso la statuizione di ‘princìpi fondamentali’ della materia che attraverso regole legislative (sia pure non di dettaglio). Tali parametri sono garantiti dalla Corte costituzionale, ad evitare che eventuali ‘eccentricità’ legislative di qualche Regione si ponga in modo lesivo con riguardo al rispetto dei beni costituzionali più volte richiamati.
Quanto al nuovo regime dell’autonomia finanziaria territoriale sancito dall’art. 119 Cost., anch’esso pone significative questioni con riguardo ai rapporti fra decentramento territoriale e principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
La nuova ‘costituzione finanziaria’ del Paese, invero, non definisce puntualmente le relazioni finanziarie tra i diversi livelli di governo, limitandosi a regolarli in via di principio e riservando alla legislazione statale la competenza esclusiva in materia di ‘armonizzazione dei bilanci pubblici’ e di ‘perequazione delle risorse finanziarie’.
L’art. 119 Cost., fra gli altri, costituzionalizza il principio della territorialità dell’imposta. Ciascuna Regione, in questa ottica, finanzia integralmente le funzioni pubbliche ad essa attribuite con tributi ed entrate proprie, mediante compartecipazioni al gettito di tributi erariali “riferibili al loro territorio”, nonché mediante il fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, volto a perequare le differenti capacità fiscali interterritoriali (soprattutto per i territori con minore capacità fiscale per abitante).
Gli effetti redistributivi del disegno costituzionale di finanza regionale, tuttavia, suscitano (e susciteranno ancor più in sede di attuazione delle procedure di cui all’art. 116.3 Cost.) interrogativi, posto che, pur prevedendosi meccanismi perequativi (indefiniti nell’entità e nel peso specifico e fin qui non disciplinati legislativamente), non è assente un possibile, concreto, rischio di ulteriore polarizzazione tra aree territoriali “ricche” e “povere” (e tra le tre regioni interessate dalla procedura dell’intesa e tutte le altre), che può incrementare il grado di diseguaglianza fra territori e fra persone.
Il testo dell’art. 119 Cost. inoltre prevede l’attribuzione dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai Comuni, alle Province e alle Regioni, i quali “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri” sia pure nel rispetto della disposizione costituzionale in materia di “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Accanto a tali flussi, esso individua, inoltre, l’istituzione di “un fondo perequativo senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Con tale disposizione di chiusura, stabilisce che i flussi finanziari derivanti da risorse autonome (tributi propri e compartecipazioni) e dal fondo perequativo consentono alle autonomie territoriali di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite” (art. 119.4 Cost.).
Rimane chiaro che il profilo tributario dell’autonomia regionale deve, in ogni caso, informarsi al principio generale dell’unità dell’ordinamento e ai principi stabiliti con legge statale in ordine alla configurazione dei tributi (in base alle riserve di legge di cui agli artt. 2, 23 e 53 Cost.), mentre alle Regioni, oltre al concorso nelle decisioni politico-legislative, spetta il disegno di un “sistema tributario” – da definire con legge regionale – ovvero di “stabilire e applicare tributi ed entrate propri”.
Per finalità costituzionali, e comunque per scopi “diversi dal normale esercizio delle loro funzioni”, il legislatore costituzionale con la nuova formulazione ha inoltre previsto la possibilità in capo allo Stato di destinare “risorse aggiuntive” e di effettuare “interventi speciali” (art. 119.5 Cost.) a favore di enti territoriali, qualora ricorrano determinate condizioni, mentre nel previgente testo potevano assegnarsi a singole Regioni dei “contributi speciali” finalizzati “a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole”. Alla luce di tali disposizioni, assume rilievo primario la corrispondenza tra le funzioni esercitate dalle autonomie territoriali e la dotazione di risorse necessarie a finanziarle, in ragione della rottura del principio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative.
Se dall’analisi giuridica relativa ai rapporti fra decentramento territoriale delle competenze statale e garanzia dei diritti fondamentali passiamo al dibattito politico-istituzionale (federalismo fiscale ieri, regionalismo differenziato oggi), può condividersi la preoccupazione di chi ha fatto osservare come ogni discorso sul federalismo fiscale (ed oggi sul regionalismo differenziato) sia caratterizzato da un tecnicismo che ne ostacola la piena comprensione, assumendosi in tal senso la ragionevolezza di quell’orientamento che ha sottolineato come, nel fondo, il discorso sul cd federalismo fiscale (ieri) e quello sul regionalismo asimmetrico (oggi) inizierà a divenire credibile solo quando la maggioranza (di governo) inizierà a misurarsi sul tema “tabelle alla mano”.
A fronte dei limiti registrati nell’attuazione della legge sul federalismo fiscale (l. 42/2009) e del dibattito piuttosto asfittico sul regionalismo asimmetrico in corso da qualche settimana, è da osservarsi come esso pare ancora troppo connotato da un tasso di eccessivo simbolismo e di retoricità e comunque ancora poco approfondito rispetto agli obiettivi attesi della riforma fiscale/regionale e (della coscienza della esistenza) dei connessi limiti costituzionali.
D’altra parte, deve anche sottolinearsi come risulti del tutto discutibile ipotizzare il successo del modello federale nel quadro di un sistema politico regionale/locale (che era e permane in gran parte) debole. D’altra parte, non si può negare il fascino argomentativo per talune regioni (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna), consistenti nella sottolineatura di una relazione molto stretta fra decentramento, sussidiarietà delle funzioni pubbliche e modernizzazione amministrativa. Una relazione che assegnava al federalismo fiscale, ieri, e al regionalismo differenziato, oggi, l’idoneità a realizzare una migliore efficienza amministrativa e che fa chiaramente aggio sull’egoismo fiscale di tali territori. Si tratta però, anche in questo caso, di discuterne l’attendibilità a fronte di una forma di Stato che, in ogni caso, è chiamato ad assicurare a tutti cittadini, a prescindere dal territorio in cui risiedono, servizi pubblici idonei a garantire i diritti fondamentali (soprattutto sociali, ma non solo).
L’alternativa al criterio della spesa storica nella riorganizzazione del sistema fiscale del Paese in tali testi di riforma (fiscale e regionale) sarebbe quello del fabbisogno del sistema regionale e di quello autonomistico, da valutare in base ad una nuova misurazione dei costi, di tipo standard e non più a piè di lista ovvero di spesa storica. Tuttavia, allo stato della discussione in corso, mancano dati comparativi idonei a supportare giudizi e decisioni (governative e parlamentari). Allo stato, per il Parlamento, appare perfino incerto il potere di partecipare alla discussione sulla modifica dell’accordo convenuto fra singola Regione e Governo. L’invocata assimilazione con lo strumento delle intese di cui all’art. 8 Cost., con riguardo alla disciplina dei rapporti fra confessioni religiose e Stato, non appare certamente scevra da dubbiosità.
A noi pare che lo scenario (ieri) delineato dal testo Calderoli (sul federalismo fiscale), qualora fosse approdato ad una piena vigenza, come oggi quello (Stefani) accolto alla base delle intese fra lo Stato e le tre richiamate regioni interessate appariva/appare in modo pressocché inevitabile destinato ad una sua riscrittura in senso garantistico da parte della Corte costituzionale. Una simile argomentazione tuttavia non pare nelle corde del ceto politico di governo!

*docente Unical

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