REGGIO CALABRIA Imprenditore, uomo dei Molè e per lungo tempo amico personale del boss Rocco, “antenna” dei servizi e massone di alto rango. Il pentito Cosimo Virgiglio è uno che di cose ne sa. E tante. Dagli anni Ottanta fino al 2005-2006 è stato il crocevia di mondi diversi, dall’èlite della ‘ndrangheta della Piana alle logge più segrete e potenti d’Italia ed ha vissuto da testimone diretto alcuni dei passaggi più importanti della storia d’Italia.
LO STATO PARALLELO Molti li ha raccontati oggi al processo “’Ndrangheta stragista”, rispondendo da testimone alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Giuseppe Lombardo. Un testimone assistito, perché indagato in procedimento connesso, ha specificato in apertura d’udienza la presidente del collegio, segno che su quel mondo di cui ha fatto parte si continua a indagare. In tale veste, Virgiglio avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non rispondere, ma ha deciso di parlare. E le sue verità hanno tracciato in maniera sempre più netta i confini di quello Stato parallelo che ha deciso le stragi e la pace, che ha fatto e disfatto governi, montato e smontato partiti, finendo per determinare l’evoluzione dell’Italia. Uno Stato che sulla riva calabrese dello Stretto ha una delle sue capitali.
INIZIAZIONE MASSONICA Originario della Piana di Gioia Tauro, non ha un pedigree di ‘ndrangheta alle spalle, ma fin da giovanissimo si avvicina alla massoneria. E il passaggio dai club service come il Rotary alle logge ufficiali, fino agli ordini cavallereschi più riservati, è rapido. «Tramite un nobile messinese, Carmelo Aguglia, entro a far parte del Rotary club, poi dopo qualche anno, più o meno nel 1992 vengo invitato dal figlio del preside di facoltà, Caratozzolo, a far parte dell’obbedienza massonica. Da giovane ero sempre attratto dal mondo della massoneria e ho accettato. Così vengo iniziato al Grande Oriente d’Italia».
TERREMOTO NEL GOI Non era un periodo tranquillo per le logge italiane. Venuto a conoscenza delle pesanti infiltrazioni dei clan all’interno dell’obbedienza, l’allora Gran Maestro del Goi Giuliano Di Bernardo aveva iniziato un’inchiesta interna, che nel giro di qualche mese lo ha convinto ad abbandonare l’obbedienza, sbattendo la porta, dopo aver denunciato tutto al Duca di Kent, capo della Gran Loggia d’Inghilterra e della massoneria riconosciuta. Nel frattempo, il “mastino di Palmi” Agostino Cordova aveva intuito i rapporti fra clan e logge e su quella pista stava indagando con interrogatori e indagini a tappeto. «Arriva una soffiata sull’inchiesta di Cordova allo studio di Marcello Caratozzolo e lui ci disse che dovevamo bruciare tutti gli archivi. Doveva scomparire tutto. In quel momento io congelai l’appartenenza alla massoneria». O meglio al Goi.
CAVALIERE DEL SANTO SEPOLCRO Tramite il nobile messinese Carmelo Ugo Aguglia, Virgiglio entra nell’Ordine del Santo Sepolcro, un ordine equestre molto più riservato e potente. «La sua sede principale non è in Italia ma nello Stato Vaticano. A capo c’è un cardinale nominato direttamente dal Papa», racconta il pentito. Formalmente dedito a «opere pie in terra di Gerusalemme», in realtà – spiega il pentito – «all’interno ospita sistemi che possono essere anche perversi». Di certo – e lui stesso se ne rende conto subito – riunisce personaggi di grande potere. «Quando entro nel Santo Sepolcro entro in contatto con Elio Matacena, l’anziano, e Franco Sensi, l’ex presidente della Roma, tutti molto legati alla città di Messina. Sensi aveva interessi negli idrocarburi su Vibo. C’erano anche personaggi del settore giornalistico come Cicciò. Si instaura un rapporto di fratellanza molto forte che va al di là della semplice aggregazione di un ordine associativo», racconta Virgiglio.
CROCEVIA GIOIA TAURO È con questo capitale di contatti che, all’inizio degli anni Novanta, Cosimo Virgiglio avvia la propria attività imprenditoriale, una società di logistica attiva anche all’interno del Porto di Gioia Tauro. Un’attività che mette il pentito in contatto «con i depositi all’interno del porto, con l’autorità portuale, con il direttore della dogana, dello Svad, della Guardia di Finanza». E con i Servizi. All’interno del porto, Virgiglio era un’antenna del Sisde, reclutata nell’ovattato e riservatissimo ambiente romano dell’Ordine del Santo Sepolcro. «All’epoca, ero già parte di un contesto massonico particolare e all’interno c’era l’ambasciatore Ugolini e insieme a lui c’era il capo dei Servizi, il generale Pollari. Quando venni investito di questo compito fu tramite l’allora maggiore della Guardia di Finanza, Francesco Pizza, che era di Roma. Ci incontrammo in un posto a noi comune, con tale Giacomo Venanzio della Gdf e un maresciallo dei carabinieri».
MISSIONE MONITORAGGIO Il compito di Virgiglio era chiaro, molto meno quello che è effettivamente successo negli anni nello scalo calabrese. «Mi dissero che sul porto di Gioia Tauro bisognava dare una mano allo Stato per quanto riguardava il passaggio delle armi», racconta. E poi aggiunge: «Dovevo valutare movimenti strani di container che prendevano la via dell’estero per smaltire rifiuti tossici e valutare movimenti esteri, quindi container con delle situazioni sensibili a livello militare». Quanti ne siano passati, con che direzione e spediti da chi non è dato sapere. Se Virgiglio lo sa, non lo ha detto. Di certo, dal suo racconto si intuisce che alcuni carichi “sensibili” dovevano passare indenni i controlli e partire per altre destinazioni, nonostante evidenti anomalie.
QUEL CONTAINER SI DEVE IMBARCARE A volte succedeva che qualche funzionario troppo ligio si mettesse di mezzo e pretendesse un’ispezione fisica di container che non dovevano essere toccati. «Quando disse agli operai di svuotare – spiega Virgiglio, senza dare dettaglio alcuno – arrivò il corpo armato della Maersk e dissero che il contenitore perdeva l’imbarco. Io ero al contatto con Venanzio e gli dissi cosa stava accadendo. Nel pomeriggio andammo personalmente a controllare cosa stesse succedendo e il container non c’era più, era stato imbarcato ignorando un blocco doganale. I servizi mi consigliarono di parlare con l’allora direttore pro-tempore dell’ufficio delle dogane di Gioia, Adolfo Fracchetti, che fece un esposto in Procura su quello che era successo, anche perché il funzionario era andato su tutte le furie».
SPIARE GLI SPIONI Ma il Sisde non era l’unico servizio di intelligence attivo a Gioia Tauro. Lo scalo calabrese ha una posizione strategica sul Mediterraneo e lo tenevano sotto controllo diverse agenzie straniere. Prime fra tutti quelle statunitensi. «All’interno del Porto di Gioia Tauro c’è una rappresentanza degli Stati Uniti – racconta il pentito –. Erano due ragazzi che abitavano a Vibo Valentia e con dei loro sistemi tecnici, quando vi erano container che andavano verso determinate destinazioni facevano controlli. Erano appartenenti a servizi di sicurezza americani. Li ho conosciuti personalmente. Con la scusa che ero doganalista ed ero stato investito di questa responsabilità, andavo io nei piazzali durante queste visite. Ed ero vicino a loro nel secondo gate dove i contenitori venivano portati in questa particolare area, dove o venivano sottoposti a visita scanner o fisica e quindi svuotamento totale, parziale o solo visivo».
FINO ALLA FINE Virgiglio non racconta se abbia mai assistito al rinvenimento di merce particolarmente sensibile o vietata, tanto meno come sia andata a finire quella storia. Il rapporto con i Servizi però è durato. E per lungo tempo. «Dal 2001-2002 fino al 2007, quando c’è il cambiamento del Sisde, ci incontriamo con i Servizi per varie forme di collaborazione. L’ultimo è alla stazione Termini, dove mi dicono ci dobbiamo sganciare perché le cose stavano cambiando». Era l’epoca della riforma dell’intelligence. Il vecchio Sisde, troppe volte saltato fuori nelle indagini che hanno tentato di svelare i veri mandanti di stragi e segreti di Stato, con la riforma dei Servizi, stava cedendo il passo all’Aisi. Forse era necessario fare un po’ di pulizia, rinnovare contatti e strutture. O forse stava cedendo un sistema di potere di natura massonica e paramassonica all’interno del quale i contatti erano maturati. Di certo però Virgiglio assicura di essere riuscito a tenere riservato quel mondo anche a un alleato ingombrante e che mal tollerava i segreti, il boss Rocco Molè.
L’ABBRACCIO CON LA ‘NDRANGHETA Nelle braccia del clan, il pentito sostiene di esserci finito per mettersi al riparo dalle bramosie di altre famiglie della zona. Nel 2001, quando la sua attività inizia ad ingrandirsi, inizia il calvario. «Furti, danneggiamenti, attentati alle autovetture. Rischiai una rapina da 300mila euro, chiamai i carabinieri che disposero una forma di sorveglianza, ma per paura mi rifiutai di esporre i fatti. Ho preferito, errando, rivolgermi alla consorteria dei Molè e fu la mia fine». Per Molè, Virgiglio era una risorsa. «Aveva necessità di far passare senza controlli dalla dogana di Gioia Tauro le merci contraffatte provenienti dalla Cina. Io avevo la possibilità di farlo a livello documentale. A livello di corruzione – sottolinea il pentito – provvedeva Molè per i suoi rapporti con loro».
LA RETE DEL GIOVANE BOSS Rampante boss cresciuto all’ombra dei Piromalli, Rocco Molè sognava in grande. Approfittando della detenzione dei capi storici del potente casato di Gioia Tauro, ambiva a prenderne il controllo. Ed era un obiettivo a cui stava lavorando da tempo e con costanza anche grazie ad una serie di contatti in ambienti istituzionali e para-istituzionali. «Molè – sottolinea il pentito – aveva i suoi canali, infatti lui direttamente si rivolse a quello che era all’epoca il direttore dello Svad, a personale delle forze dell’ordine. Aveva una sua rete molto articolata». Ed efficace. «Ci fu un momento in cui la Guardia di finanza di Monopoli, arrivata sul porto di Gioia, aveva bloccato erroneamente dei container di merce contraffatta di Molè. Lui, tramite un suo uomo, fece arrivare un capitano del Noe, prima appartenente alla Dia, e cercò di organizzare lo svincolo dei container tramite il direttore dello Svad ma non ci riuscì. Era il capitano Spadaro Tracuzzi».
L’OMBRA DI FACCIA DI MOSTRO E L’ECO DELLE STRAGI Un nome che ritorna e incrocia diverse indagini. Condannato definitivamente a 10 anni nel processo contro la cosca Lo Giudice, Spadaro Tracuzzi è stato inquadrato come ufficiale infedele pronto a vendersi a un clan per una serie di benefici molto concreti e materiali. Ma incrociando le varie inchieste in cui è saltato fuori il suo nome, appare una figura decisamente più complessa. A lui si è rivolto Giovanni Aiello, l’ex agente della Mobile di Palermo indicato da diversi pentiti come il killer di Stato “Faccia di Mostro”, per indurlo a «rendere dichiarazioni false in ordine ai suoi rapporti con Aiello, nonché in ordine alla posizione ed al ruolo criminale del predetto nel contesto della ‘ndrangheta reggina». E magari, soprattutto, nel contesto dei rapporti con il clan Lo Giudice, di cui per lungo tempo sono stati massima espressione Nino Lo Giudice e Consolato Villani, i primi ad aver puntato il dito contro Aiello, accusato di aver avuto un ruolo nell’organizzazione degli attentati ai carabinieri che sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo. E su di lui, oggi Cosimo Virgiglio ha aggiunto anche un altro tassello. «Mi informai dall’allora direttore delle dogane Aldo Fracchetti su chi fosse Spadaro Tracuzzi e mi disse che era persona che aveva favorito ed avallato traffici di rifiuti tossici al porto di Gioia Tauro». Magari gli stessi che secondo il pentito Nino Lo Giudice sarebbero finiti anche nella galleria della Limina.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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