Il dibattito che si sta sviluppando nel Paese sul regionalismo differenziato è alquanto viziato in relazione al suo reale significato. La suddivisione tra catastrofisti e sostenitori esclude dal confronto la terza specie ovverosia quelli che, consci che il tema riguarda una previsione costituzionale vecchia di 18 anni e una attuazione legislativa che ha 10 anni di età, intendono affrontare l’argomento così come merita. Con l’intesse rivolto soprattutto alle ricadute che esso avrebbe in relazione alle singole materie legislative coinvolte. Il tutto con la certezza che l’attuazione legislativa delle Intese troverà nella Consulta il baluardo delle garanzie a che non vengano in alcun modo lesi i principi che la Costituzione ritiene invalicabili.
Attenzione alle affermazioni divisive
Partendo dalla condivisione dell’articolo appena pubblicato da Roberto Bin il 16 febbraio (in lacostituzione.info) dal titolo «La “secessione dei ricchi” è una fake news» necessita approfondire cosa stia succedendo e su cosa si stia «litigando» invece di ragionare su come meglio applicare un precetto della Costituzione che, così come quelli recati dall’art. 117, comma 2, lettera m), e dall’art. 119, ha fino ad oggi registrato gravi ritardi attuativi. Primi fra tutti, la mancata determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (fatta eccezione per i Lea) e l’omessa definizione dei costi e fabbisogni standard nelle loro diverse previsioni e funzioni che, tuttavia, vengono confusi gli uni con gli altri su larga e colpevole scala.
In una tale ottica affrontiamo da vicino la “materia” del contendere.
La solita montagna che ha partorito (sino ad oggi) il topolino
Nella serata di San Valentino il Governo ha messo giù le carte sull’iter del regionalismo differenziato, pubblicando sul proprio sito quanto convenuto con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna in tema di regionalismo differenziato. Il «punteggio» è stato disarmante, se messo in relazione alle proposte da tempo in gioco. Tre specie di pre-intese che non dicono nulla, salvo la buona intenzione di rinviare ad una Commissione paritetica il compito di determinare le risorse occorrenti per il corretto esercizio delle funzioni amministrative trasferite a seguito delle novellate competenze legislative eventualmente riconosciute alle Regioni.
Quanto alle trattative svolte tra il Governo e le anzidette Regioni istanti possono essere riassunte in tre fasi documentali.
La prima costituita dalle proposte rese pubbliche dalle tre Regioni istanti per lo più approvate all’unanimità dei componenti i loro organismi istituzionali.
Successivamente, sono apparse quelle «trafugate» nel mentre e a conclusione delle trattative, condotte all’insegna della segretezza, svolte tra i rappresentanti delle Regioni e dalle burocrazie ministeriali coinvolte per materia, a conclusione delle quali sono apparse quelle rappresentate «a partite contrapposte», distinte nella parte condivisa e in quella rifiutata dal Governo. Un elaborato molto complesso che rappresentava, così come dovrebbe essere, ciascuna delle materie rivendicate scandite per segmenti, indicativi delle «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», cui la Costituzione fa esplicitamente rinvio per definire l’attuazione del regionalismo differenziato.
Alla fine però – dopo le due precedenti apparizioni invero molto nutrite in termini di pagine – sono venute fuori le più attuali tre paginette e mezzo di Veneto e Lombardia e quattro paginette e mezzo dell’Emilia-Romagna, al netto dei considerata, rese note dal Ministero degli affari regionali, cui è preposta la pasionaria leghista Erika Stefani, nella serata del 15 febbraio.
Un risultato non affatto meritevole
Da qui, il concretizzarsi di una sorta di pre-intese difformi dalle richieste a suo tempo perfezionate dalle tre Regioni, che appaiono avere rinunciato a dare battaglia sul c.d. federalismo asimmetrico almeno sino a quando non si saranno materializzati i saldi elettorali delle prossime elezioni europee e amministrative del 26 maggio.
Nel frattempo risultano affievolite le pretese della Lombardia – che ha cassato dalla sua primitiva istanza l’organizzazione del giudice di pace e le discipline sulle casse di risparmio, le casse rurali, le aziende di credito a carattere regionale nonché degli enti di credito fondiario e agrario a carattere generale – a differenza di quelle venete rimaste inalterate e quelle emiliano-romagnole che sono state incrementate di una materia.
Tra tutte, assume rilievo la sanità
In tutte le materie rivendicate da tutte e tre le Regioni, così come dalle altre nove che hanno formalizzato (quasi) medesima istanza, è ovviamente compresa la tutela della salute che, insieme all’istruzione, rappresenta l’ambito normativo che assorbe più risorse statali, con il suo sistema erogativo che genera più problemi in termini di divario qualitativo nella determinazione dell’offerta relativa. Un gap che produce un ingente travaso di risorse, per circa cinque miliardi di euro, in favore delle Regioni che assicurano livelli essenziali di assistenza più performanti di quelle ricadenti prevalentemente nel sud, incapaci di assicurare un servizio sanitario efficiente.
Il ragionevole auspicio e la garanzia della Corte costituzionale
Proprio per questo motivo, occorrerebbe un impegno comune a che diventi più diffusamente chiaro l’impatto dell’eventuale attuazione del regionalismo differenziato in termini di opportunità legislative offerte alle Regioni, di possibili miglioramenti della qualità dell’assistenza e di pericolose ricadute sulla uniformità dell’assistenza da rendere a tutta la nazione, in uno spessore non inferiore ai Lea individuati (gli unici Lep ad essere determinati!) a mente dell’art.117, comma 2, lett. m), della Costituzione.
Per fare ciò necessita sollecitare l’individuazione degli accorgimenti tecnici che impedirebbero – così come avverrebbe se la legge, che determinerà il regionalismo differenziato ex art. 116, comma 3, della Costituzione, avesse un contenuto pari alle proposte condivise dal Governo rispettivamente con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – a taluni piuttosto che a talaltri di godere di una sanità eccellente negata invece ai secondi, così come accade da decenni.
Ad un nord che legittimamente garantisce prestazioni essenziali della salute di eccellenza non si può, infatti, legittimamente negare di non mirare a migliori performance prestazionali. L’intervento dovrà assumere l’occasione per il sud inoperoso che dovrà imparare, in siffatta attuale occasione, ad approfittare della chance dettata dalla Costituzione (art. 116, 3) di pervenire ad un regionalismo non già irragionevolmente differenziato bensì sensato e ragionato per materia, meglio per segmento di essa.
Solo così verrebbe ad incentivarsi l’unità giuridica ed economica dalla Repubblica, in favore della quale si porrà come garante assoluto la Corte costituzionale che impedirà, oggi, il perfezionamento di leggi a maggioranza assoluta che violino i principi della Carta e, domani, leggi regionali che facciano a pezzi l’ordinamento tenuto ad assicurare servizi fondamentali e prestazioni essenziali funzionali a rendere esigibili i diritti civili e sociali connessi alle materia eventualmente trasferite.
Si lavori insieme, e bene, per una Salute ovunque migliore
Al fine di realizzare tutto questo si rende ovvia la formalizzazione di una Intesa Governo-Regioni richiedenti – che si presumono divenire più numerose di quanto lo siano con la verosimile previsione delle analoghe istanze di Abruzzo e Molise, che lasceranno da sola la Calabria nel portare avanti le sue inutili diffide – ordinata per precisi segmenti della materia salute.
Ciò in quanto, è di tutta evidenza nella lettera costituzionale, con la scomparsa delle legislazione concorrente verrebbe riconosciuta – relativamente alle ulteriori forme e condizioni di autonomia richieste – in capo alla Regioni la potestas di legiferare, oltre che nel dettaglio, relativamente ai principi fondamentali, ovverosia in quelli cristallizzati in quelle importanti e imprescindibili regole fissate dalla legge 833/1978 e dal vigente d.lgs. 502/92 che sovrintendono all’attuale sistema erogativo delle prestazioni essenziali. Con questo, potranno rifondare l’attuale modello del servizio sanitario nazionale, premurando di salvaguardare esclusivamente la disciplina legislativa di competenza esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei Lea e di organizzazione amministrativa centrale.
Ebbene sì, perché al di là dei livelli essenziali di assistenza onnicomprensivi dei già Liveas (già) fissati dallo Stato, nelle Regioni beneficiarie degli effetti del regionalismo differenziato il funzionamento dei diversi sistemi socio-sanitari potrà essere «riformato» sulla base delle loro novellate regole. Di tutte quelle che afferiscono all’intero apparato sistemico erogativo della salute a cominciare dalla riscrittura della governance complessiva per finire alla disciplina istitutiva delle farmacie passando per le regole del sistema autorizzativo e dell’accreditamento, dei contratti e delle convenzioni, sino ad arrivare a sconvolgere quelle attuali riconoscendo ai «medici di famiglia» l’ingresso a pieno titolo in un rapporto di dipendenza pubblica.
Stesse sorti potranno registrare le attività afferenti alla prevenzione, a cominciare dalla prestazione della medicina veterinaria, soprattutto nella parte in cui dovrà essere restituito al territorio quel protagonismo negatogli sino ad oggi da una sanità ospedalocentrica che non ha più modo di esistere così com’è, se non nella parte in cui la spedalità dovrà pretendere di conseguire una maggiore eccellenza rispetto al pericoloso reiterarsi nella peggiore ordinarietà della pratica ospedaliera che ha condannato il sud ad emigrare per rintracciare altrove un diritto alla salute degno di questo nome.
Attenti alle responsabilità statali
Per ritornare al regionalismo differenziato, ciò che conta è farlo bene, tenendo conto delle peculiarità regionali. Lo Stato, con le sue amministrazioni centrali, è quello che ha dimostrato più pecche nel percorso di moderazione delle differenze erogative, attesa la sua inefficienza negli interventi volti «immediatamente a tutela dei diritti individuali nelle regioni che non assicurano ai loro cittadini prestazioni adeguate “livelli essenziali”» (Roberto Bin dixit).
Un impegno in più
Concludendo occorre che si approfondisca di più l’argomento, che merita più attenzione e conoscenze da parte di chi in esso ha modo di influire.
Basta, quindi, per esempio, ad improvvidi richiami a norme desuete, del tipo che il regionalismo differenziato mette in pericolo il fondo sanitario nazionale e le sue ripartizioni. Ciò senza riflettere cha la loro esistenza è esclusivamente dovuta all’inerzia di quel legislatore che non ancora attuato la Costituzione del 2001 e, dunque, la messa a regime del finanziamento della salute fondato su costi/fabbisogni standard – in luogo della quota capitaria discriminata per età dei residenti/destinatari – sul fondo perequativo, strumento di vera giustizia ridistributiva. Tutto questo è legislativamente deciso da 10 anni; la colpa è di quella politica (tutta) che non ha attuato la legge 42/09 e il d.lgs. 68/2011 ma anche di quelli che ne parlano senza averli mai letti.
Tutto questo costituisce il punto da dove ricominciare per pervenire ad un regionalismo differenziato che potrà anche contribuire ad una ulteriore crescita del nord ma che non sottrarrà nulla al sud, garantito dai livelli standardizzati, dai costi/fabbisogni standard, meglio se attualizzati agli indici di deprivazione socio-economica, e dalla certezza finanziaria assicurata da un fondo di perequazione nonché da una politica che garantisca quell’eguaglianza infrastrutturale senza la quale tutto sarà impossibile per il Mezzogiorno.
*docente Unical
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