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«Regionalismo differenziato in (dis)ordine sparso»

di Antonino Mazza Laboccetta*

Pubblicato il: 20/02/2019 – 7:11
«Regionalismo differenziato in (dis)ordine sparso»

È al centro del dibattito politico attuale il cosiddetto regionalismo differenziato. Meglio dire: “torna” al centro del dibattito il regionalismo differenziato, perché la fiammata l’ha data, qualche tempo addietro, il referendum del lombardo-veneto.
A ben guardare, però, la spinta iniziale viene dalla riforma del Titolo V della Costituzione, approvata dal centro-sinistra nel 2001, come tutti ricorderanno, a colpi di maggioranza. La riforma introduce la possibilità per le Regioni ordinarie di ottenere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» art. 116, comma 3, Cost.), che le Camere approveranno con «legge ordinaria» a maggioranza assoluta.
Le prime richieste autonomiste sono arrivate da ricche Regioni del Nord (Lombardia, Veneto e poi Emilia-Romagna), e, come pare, altre se ne aggiungono da ogni dove: anche il Governatore della Campania, pur con tanti e sonori distinguo e strali contro le derive anti-unitarie, articolerà le proprie richieste autonomiste.
Il momento è delicato, ed è bene che il dibattito in Parlamento sia quanto mai approfondito, non compresso dall’agenda del Governo, come spesso è accaduto anche in occasioni fondamentali, quali l’approvazione della legge di bilancio. Ma è bene che anche l’opinione pubblica sia vigile, e, prim’ancora, consapevole della posta in gioco. Battere un colpo è, inoltre, interesse del centro-sinistra, al quale si deve la riforma del 2001 e, quindi, la nuova e diversa spinta al nostro regionalismo. Per evitare che gli si possa rimproverare di essere stato apprendista stregone.
In ordine sparso
È bene fare un po’ d’ordine. E, a questo scopo, va detto che, dopo la riforma del 2001, il legislatore ha mancato di approvare una legge che disciplinasse le modalità di attivazione del regionalismo differenziato, previsto dall’art. 116, comma 3, Cost.. Legge assolutamente necessaria non solo per stabilire procedure omogenee, ma anche per definire la costituzione degli organi cui affidare il calcolo e la determinazione dei fabbisogni finanziari.
Scoppiata la fiammata referendaria nel corso della passata legislatura, la Lombardia, il Veneto e poi l’Emilia-Romagna si “costruirono”, nel vuoto legislativo, il metodo delle pre-intese tra governo e regioni interessate, sulla base della scarna previsione costituzionale secondo la quale l’attribuzione di forme rafforzate di autonomia va stabilita con legge rinforzata all’esito di un’intesa tra Stato e Regione, acquisito il parere degli enti locali interessati, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119 Cost. in materia di autonomia finanziaria.
La pre-intesa lascia prefigurare – o, peggio ancora, presuppone – un Parlamento ridotto all’inaccettabile ruolo di recepire o rigettare il prodotto già confezionato da Governo e Regioni interessate. Per la verità, va detto che la legge di stabilità per il 2014 ha dettato alcune disposizioni dirette a dare attuazione alla norma costituzionale. Ma si tratta di norme insoddisfacenti, limitate, come sono, a disciplinare la fase iniziale del procedimento: in particolare, vi si prevede un termine di sessanta giorni entro il quale il Governo deve attivarsi per dare seguito alle iniziative attivate dalle Regioni (art. 1, comma 571, l. n. 147/2013). Per il resto, il contenuto della legge rinforzata è determinato dalla pre-intesa tra Stato e Regione interessata.
Il precedente governo sottoscrisse, il 28 febbraio 2018, con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna tre diversi accordi preliminari di durata decennale (ma modificabili nel tempo al verificarsi di «situazioni di fatto o di diritto che ne giustifichino la revisione»), con i quali furono individuati principi generali, metodi e un (primo) elenco di materie (sanità, istruzione, ambiente, lavoro e rapporti internazionali con l’Europa) suscettibile di estensione alle altre ventitré che, secondo l’art. 116 Cost., possono attrarre «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Una volta insediatosi il governo pentaleghista, le tre Regioni non tardarono a chiedere l’estensione del novero delle materie oggetto delle prime intese. E, ora, bisognerà fare i conti con le richieste autonomiste variamente formulate dalle altre Regioni che pure vogliono muoversi nell’alveo tracciato dall’art. 116, comma 3, Cost…
In mancanza di una legge attuativa dell’art. 116, comma 3, Cost., il percorso sarà inevitabilmente accidentato e inaccettabilmente lasciato agli umori del momento. E non potrà che procedersi in ordine sparso.
I fabbisogni standard
Come tutti ricorderanno, la ventata referendaria del Lombardo-Veneto agitava la questione del c.d. residuo fiscale. In sostanza, le richieste avanzate dalle due Regioni miravano a calcolare i fabbisogni standard – da sempre collegati alle esigenze socio-economiche, demografiche e alle caratteristiche territoriali – “anche” sulla base del gettito fiscale regionale. Una vera novità, perché il parametro del gettito fiscale fa irrompere una variante non da poco, che rischia seriamente di “divaricare” i diritti di cittadinanza su servizi essenziali, come l’istruzione e la sanità. Più garantiti dove maggiore è il livello di reddito regionale, meno garantiti dove è minore. Per esempio, la proposta di trattenere nel territorio il 90% dei tributi riscossi dalla Regione produce divisioni territoriali tali da minare l’unità nazionale (il 90% del gettito calcolato sull’imponibile prodotto in Lombardia o nelle altre Regioni più ricche non ha lo stesso peso di quello prodotto in Calabria o nelle altre Regioni più povere, e sarebbe certamente misura difficilmente digeribile da chi sta economicamente peggio).
È operazione delicata e complessa quella del calcolo dei fabbisogni standard, perché può essere condotta secondo metodologie che sono “diverse” tra loro: ciascuna fa derivare esiti “diversi”, che non sono politicamente “neutri”. Si tratta, pertanto, di operazione che richiede un’approfondita ed articolata attività politica di mediazione dei vari interessi territoriali, da governare secondo logiche e procedure omogenee e unitarie. In modo trasparente. In Parlamento e davanti all’opinione pubblica.
La mancanza di un percorso attuativo omogeneo e unitario dell’art. 116, comma 3, Cost. è ancor più grave ove si consideri che la norma impone il «rispetto dei principi di cui all’articolo 119». Nel confuso procedere verso il regionalismo differenziato, non si comprende come esso possa coordinarsi con l’art. 119 Cost., là dove prevede i) che con legge dello Stato venga istituito un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minori capacità fiscali per abitante; ii) che lo Stato destini risorse aggiuntive ed effettui interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni «per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a funzioni diverse dal normale esercizio delle loro funzioni».
Ma vi è di più. Manca l’ulteriore “punto di partenza” del regionalismo differenziato, la definizione cioè dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m).
Un’operazione politica
In una situazione di questo tipo, caratterizzata da vuoti legislativi importanti, l’attuale fuga verso il regionalismo differenziato è solo un’occasione sprecata, perché, nel suo disordinato avanzare, compromette e, nella migliore delle ipotesi, rallenta il percorso autonomistico che, nelle intenzioni del legislatore della riforma, mira a completare l’autonomia ordinaria attraverso forme e condizioni «ulteriori», intese a valorizzare ed esaltare, all’interno della cornice nazionale unitaria, le diversità territoriali, le loro specificità, le loro potenzialità. A metterle sì in (virtuosa) competizione tra loro, ma nel rispetto del principio solidaristico che deve rimanere alla base delle autonomie.
Che si sia trattato di operazione di bassa levatura politica, lo dimostra l’improvvisa battuta d’arresto che pare aver subito, in questi giorni, l’avanzata del regionalismo differenziato. Il Movimento 5Stelle, in tempi di elezioni, non può permettersi di perdere le Regioni del Sud, dove attinge la gran parte del consenso elettorale, ma nemmeno la Lega può spingere troppo l’acceleratore sulla difesa delle Regioni del Nord se vuole diventare (o anche solo accreditarsi come) Lega “nazionale”.

*docente dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria

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