Serviva una conferma sul pressappochismo istituzionale che governa le prefetture di Catanzaro e di Reggio Calabria? Occorreva una plastica dimostrazione dei danni prodotti dalla “gestione Di Bari” dell’Ufficio di Governo della città metropolitana? Probabilmente no, e tuttavia le sentenze con le quali il Tar del Lazio annulla i decreti di sospensione, prima, e di scioglimento, dopo, del consiglio comunale di Lamezia Terme (qui la notizia) e di quello di Marina di Gioiosa Jonica (qui i dettagli), non solo confermano ogni riserva fin qui espressa ma creano un problema serio al Ministero dell’Interno e, più in generale, alle scelte che i ministri Marco Minniti, prima, e Matteo Salvini, dopo, hanno operato, soprattutto con riferimento alla nomina e al mantenimento alla guida della Prefettura reggina del prefetto Michele Di Bari.
È un problema di credibilità, innanzitutto, laddove si pensi al record di accessi e al primato di proposte di scioglimento di civici consessi stabilito dal prefetto Di Bari, in uno con il perpetuarsi dello scandalo di una “baraccopoli”, in quel di Rosarno, utile solo per vedere ardere vivi giovani immigrati (nemmeno il Ku Klux Klan avrebbe saputo fare di meglio).
Tuttavia agli occhi di Minniti, e soprattutto a quelli di Salvini, il prefetto di Reggio poteva vantare un merito speciale: aver tolto di scena quel rompiscatole di Mimmo Lucano e il suo “Modello Riace”.
Dove sono andati i tempi di una volta… oggi il prefetto e il ministro si danno del “tu” in pubblico, al coordinamento e alla supervisione si sostituiscono le “sinergie politiche”, e allora può capitare che il giovane sindaco del Pd di Marina di Gioiosa Jonica, esponente del mondo del volontariato cattolico, stimato professionista alla guida di un manipolo di cittadini perbene e incensurati, venga messo alla gogna da una Prefettura che non sopporta il suo protagonismo nel cuore della Locride. E quando il povero sindaco chiede ufficialmente un incontro con il conterraneo ministro dell’Interno non riceve neanche una risposta sia pure in chiave burocratica. Chissà se avrà tempo e voglia, Minniti, ora che di tempo ne ha parecchio, per leggersi quello che del sindaco di Marina di Gioiosa e della sua giunta scrivono i giudici del Tar del Lazio. E chissà se avrà tempo e voglia di leggere quello che, per contro, gli stessi magistrati scrivono della Prefettura di Reggio Calabria retta e diretta da Michele Di Bari.
Non si limita, il Tar, a dire che quel consiglio comunale non andava sciolto, va oltre e annulla anche i due provvedimenti a firma Di Bari con i quali la Prefettura negava agli amministratori l’accesso agli atti, ovvero la possibilità di sapere che cosa veniva loro rimproverato sul fronte della resistenza alle pressioni mafiose. E va ancora oltre, la sentenza, arrivando a mettere nero su bianco il fatto che, al fine di motivare uno scioglimento ingiustificato e ingiustificabile, venivano inserite nel provvedimento «vicende che tuttavia risultano essere travisate o solo parzialmente descritte sicché la loro valenza, sia pur in termini indiziari, ne risulta gravemente compromessa».
E quando hanno esaurito le censure, i giudici del Tar del Lazio non rinunciano all’ironia, evidenziando come in sostanza il prefetto Di Bari stava imputando al sindaco e alla Giunta di Marina di Gioiosa Jonica la mancanza di poteri divinatori: «Si contesta un lavoro affidato a una ditta raggiunta da interdittiva antimafia, tuttavia quel contratto veniva stipulato nel febbraio 2016 e il provvedimento interdittivo è del febbraio 2017». Esattamente un anno dopo!
Non finiscono qui i «travisamenti», le «forzature» e le «parziali omissioni» che portano il Tar a massacrare il provvedimento firmato dall’ex ministro Minniti. C’è spazio anche per una feroce annotazione che inverte l’ordine delle responsabilità facendo carico proprio alla Prefettura retta da Michele di Bari di un imperdonabile lassismo. Lo fa quando affronta il tema delle concessione di alcune licenze demaniali. Due in particolare che sarebbero andate a persone poi rivelatesi come prestanome di affiliati alla criminalità organizzata. Anche qui il Tar, senza mezzi termini, parla di «travisamento dei fatti», evidenziando che in verità è dimostrato il tentativo dell’amministrazione di respingere quelle richieste ma l’impossibilità di poterlo fare proprio per l’inerzia della Prefettura. Considera, infatti, il Tar, imperdonabile «…un quadro fattuale caratterizzato dalla presenza di un notevole ritardo nel riscontro delle richieste di informazioni antimafia da parte della Prefettura reggina. Il Comune chiede informazioni nel 2013, le sollecita nel 2014 e ancora nel 2015 la prefettura risponde solo con nota 6 dicembre 2017 e già il 22 il Comune revocava la concessione».
Potremmo continuare a lungo, un capitolo intero lo assorbirebbe la storia della caserma dei carabinieri che il sindaco mandato a casa vuole collocare in un bene confiscato. I carabinieri, però, tardano a rispondere e così il sindaco si vedrà contestato il mancato rapido utilizzo. E si badi bene, il pronunciamento del Tar del Lazio fa da apripista a quella che si preannuncia da tempo come la madre di tutti i contenziosi relativi a una disinvolta applicazione della legge in provincia di Reggio Calabria. Il riferimento è alla battaglia ingaggiata dall’ex sindaco Pietro Fuda, con un passato da senatore dell’Ulivo, sollevato dalla carica di primo cittadino di Siderno, insieme alla giunta e al Consiglio, per supposte infiltrazioni mafiose. Lì è battaglia anche nei tribunali, dove Fuda ha chiamato in giudizio i tre commissari prefettizi dai quali aveva ricevuto le consegne. Si parla di danni milionari e di comportamenti suscettibili di valutazione anche in sede penale.
Quanto basta per attestare il persistere di una emergenza democratica e di un grave e pericoloso crollo della credibilità delle istituzioni statali in una terra che, al contrario, avrebbe bisogno esattamente del contrario.
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