Succede spesso che istituzioni dello Stato chiedano conto ad altri di loro mancanze, di una burocrazia asfissiante e farraginosa di cui sono parte e che si riversa proprio contro coloro che hanno il compito di gestire amministrativamente la cosa pubblica.
Che le Prefetture non abbiano più ragione di esistere non è un pensiero di oggi, lo pensava, e a mio avviso a ragione, Luigi Einaudi nel 1944 e così si era espressa la II sottocommissione e il comitato dei dieci durante i lavori preparatori della Costituzione repubblicana, parere che poi non fu tenuto in considerazione.
Che poi prefetti e similaria siano i meno indicati a guidare i comuni sciolti per mafia, Lamezia ne è solo l’ultima dimostrazione.
E tuttavia prima di dare un giudizio compiuto è bene aspettare il secondo tempo, ossia il pronunciamento del Consiglio di Stato perché se c’è una cosa certa in questo Paese, è l’assoluta incertezza della giustizia amministrativa, un settore che non brilla per trasparenza e omogeneità di interpretazioni. Sono decine i casi di pronunciamenti del Tar sull’argomento ribaltati in un verso o nell’altro dal Consiglio di Stato, ultimo in Calabria quello di Tropea.
Quello che oggi possiamo affermare da questi due ultimi casi di decreti annullati – che rimangono comunque una assoluta minoranza statistica nel panorama dei consigli disciolti per criminalità, appena il 7,6% – è l’eccessiva discrezionalità che grava sulla materia per come riconosciuto dalla stessa giustizia amministrativa che ammette «l’ampia sfera di discrezionalità di cui l’Amministrazione dispone in sede di valutazione dei fenomeni connessi all’ordine pubblico, ed in particolare alla minaccia rappresentata dal radicamento sul territorio delle organizzazioni mafiose».
Ciò significa, ad esempio, che alcuni Sindaci sono stati “accusati” di aver vigilato poco ed altri di aver vigilato molto invadendo la sfera gestionale dei dirigenti con i primi cittadini stretti a tenaglia tra l’articolo 50 del Tuel e le autonome prerogative della dirigenza senza che sul tema ci sia alcun criterio di valutazione se non, appunto, l’ampia discrezione prefettizia prima e di valutazione dei Tar dopo.
Lo stesso è possibile rintracciare in alcuni passaggi della sentenza che riforma il provvedimento di scioglimento del consiglio comunale di Lamezia Terme in cui è impossibile non notare, pur condividendoli, chiavi di lettura oggi diametralmente opposti a giudizi posti invece a conferma di decine di altri provvedimenti dissolutori di organi elettivi. È il caso, ad esempio, dell’irrilevanza della continuità amministrativa e personale con precedenti consigli o consiglieri se questi non sono stati oggetto di alcun provvedimento. È vero invece che questa medesima continuità è stata valutata negativamente in molti altri casi sulla base di un giudizio discrezionale che pure non poteva poggiarsi su nessun elemento di fatto poiché una persona o è eleggibile o non lo è.
Lo stesso dicasi sul tema delle “frequentazioni”, spesso elemento decisivo per lo scioglimento di micro-comuni in cui appare obiettivamente difficile non incontrare elementi “controindicati” che non in una città come Lamezia o ancora sul valore dato a comportamenti di singoli o all’azione amministrativa giudicati sulla circostanza di operare in un’area a forte presenza mafiosa.
È chiaro che questa ambivalenza valutativa non aiuta soprattutto se l’obiettivo è di intervenire su un fenomeno così devastante ma subdolo nei rapporti col governo della cosa pubblica. E non aiuta nemmeno il comportamento dei cittadini che hanno bisogno invece, come non mai, di certezze.
*sociologo
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