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Il ritorno dell'incantesimo di Oga Magoga

di Valentino Santagati*

Pubblicato il: 23/02/2019 – 15:10
Il ritorno dell'incantesimo di Oga Magoga

Oga Magoga è un incantesimo, un diluvio di parole che sospingono al naufragio in dolce mare e s’imprimono come musica nei lettori disarcionati e sballottati, un’armonia, un’orchestrazione del mondo modellata sulle cosmogonie delle culture orali, con la scansione epica e ridondante di vicende e riflessioni sostenuta da una lussureggiante capacità mitopoietica e da una funambolica inventiva sintattica e lessicale sulle cui ali, per contrasto, il linguaggio logico-strumentale, l’esasperante pragmatismo linguistico della nostra epoca appare miserabile senza possibilità d’appello.
È un libro immenso Oga Magoga, cunto di Rizieri, di Orì e del minatòtaro, vincitore del Premio Corrado Alvaro del 2003, celebrato da fior di critici letterari e professori universitari ma sconosciuto ai più, che era uscito nel 2000 in tre volumi per l’Editoriale Progetto 2000; un’edizione grama di esemplari e non sorretta da slancio alcuno in fase distributiva. Ora siamo qui a salutare con gioia il nostos, l’opportuno e felice ritorno di Oga Magoga promosso dal professor Francesco Mercadante, tra i più attivi divulgatori e studiosi dell’opera narrativa di Giuseppe Occhiato (Mileto 1934 – Firenze 2010), che oltre al libro magno (1.197 pagine nella nuova edizione) comprende altre fatiche di minor mole ma di altrettanto pregio: Carasace. Il giorno che della carne cristiana si fece tonnina, Editoriale Progetto 2000, 1989; Lo sdiregno (che di Carasace è una splendida riscrittura) Ilisso-Rubbettino, 2006; L’ultima erranza, Iride edizioni 2007 e l’ancora inedita Opra meravigliosa.
Giuseppe Occhiato ha attraversato la vita sua in punta di piedi, accostandosi al prossimo con dolcezza e gentilezza, dispensando a chiunque sorrisi e sguardi sereni. La misura, la compostezza e la serietà celavano un vulcano ribollente, un magma di istanze estetiche, sentimentali, spirituali, un bisogno estremo di comunità e di bellezza maestosamente trasfuso nell’opera letteraria.
La moglie Amelia, l’amata sua compagna di una vita, mi ha commosso descrivendomi l’avidità sensuale, la frenesia con cui tornando ogni anno a Mileto da Firenze si riappropriava del territorio, percorrendone le campagne con bambinesca felicità e massima attenzione alla natura e ai segni della storia umana (Peppocchiato è stato anche un elegante saggista in quanto profondo conoscitore di cose normanne), indugiando a chiacchierare con i sempre meno numerosi frequentatori dei luoghi cantati nell’Oga Magoga. Il grande scrittore di Calabrò (rione di Mileto che nei romanzi diventa Contura) sapeva bene che il sistema socio-economico  in cui siamo immersi è, prima che un modo di produzione, un groviglio antropologico nel quale le ragioni della vita, le relazioni, gli affetti, l’arte, l’intimità con la natura e il senso di appartenenza al luogo in cui si risiede, la dimensione spirituale, sono sottomesse all’individualismo, all’arraffa arraffa, alla competizione, al futticumpagnu; tutto ciò per cui vale la pena vivere, per usare una parola sola, è sotto scacco dell’economia diventata fine supremo, moloc fagocitante, mentre gli uomini hanno assunto il vergognoso rango di mezzi sempre pronti al sacrificio per rabbonirla. E la società della crescita economica, la guerra che ha ingaggiato contro i poveri, il passato e gli ecosistemi, lacerava la coscienza e la sensibilità di Giuseppe Occhiato, e con l’opera narrativa è riuscito a notificare urbi et orbi la sua dissidenza. Non contate su di me – sembra dire da ogni pagina con le parole che ha usato per descrivere un rudere –, io sono testimone della magnificenza di un tempo, ultima sentinella di un’epoca e di un mondo scomparsi posta a guardia di un cumulo di rovine. E del resto gli intenti dichiarati negli Appunti per la lettura di Oga Magoga sono ambiziosi e inequivocabili: …Non ho mirato…a un romanzo tout court ma a un epos nel quale riversare, come scrive Corrado Alvaro…, “tutta la mitologica infanzia regionale”: ma non quella di un piccolo paese soltanto, dovevo dilatarne lo spazio e il tempo al di là delle loro reali misure, partendo solo da un piccolo luogo e da una piccola vicenda per arrivare alla dimensione epica della memoria e del racconto. È l’intento che mi ha guidato fin dall’inizio nella composizione del libro: scrivere un’enciclopedia della Calabria, comporre un’opera totale ed articolata che la comprendesse nei vari aspetti e significati della sua antica civiltà stratificata.
A questo punto mi arresto, per una segnalazione e un giubilante benvenuto alla nuova edizione Gangemi a cura di Emilio Giordano può bastare così. Affido alla pagina tratta dal romanzo e riportata qui di seguito una migliore presentazione delle sue meraviglie, rimandando agli scritti magnifici, davvero all’altezza del compito che si sono posti, raccolti nel volume La grande magia. Mondo e Oltremondo nella narrativa di Giuseppe Occhiato, Edizioni Studium 2014 (ne sono autori Nino Borsellino, Salvatore Trovato, Lia Fava Guzzetta, Caterina Verbaro, Emilio Giordano, Francesco Mercadante, Alfio Lanaia, Daniela Marro, Marino Biondi e Margherita Geniale) e alla monografia di Emilio Giordano (I mostri, la guerra, gli eroi, Rubbettino 2010) per un’esegesi sfaccettata dell’opera tutta del nostro caro amico troppo presto scomparso.
Ma comunque, alla facciazza di Nasomangiato, della Madamamortazza che tante sacrosante invettive raccoglie nell’Oga Magoga, la sua figura sfiderà il tempo se l’affarismo sviluppista si farà da parte e tornerà tra gli uomini la speranza del futuro al momento inconcepibile. Giuseppe Occhiato è fratello di Stefano D’Arrigo, una delle due colonne dello Scill’e Cariddi che è diventato mediante loro più di quanto già prima non fosse un ossimorico stretto smisurato, affollato di reme e bastardelli guizzanti tra realtà e mito, memoria e mistero. La gran Maniante di questo mondo a due arcontari di cotale peso sembra che se li è presi e invece gli ha fatto un baffo: non se li può carriare tutt’interi, il loro carico ormai l’hanno mollato e continua a generare vita per ognuno, così lei la Mortemagara si mangia il fegato per tutti i seculaseculorum amen.

*Ricercatore

Di seguito un saggio dello stile e della finezza antropologica di Occhiato: la parte iniziale della lunga descrizione di una festa organizzata da una coppia di contadini, sfollati in campagna durante la guerra, per festeggiare la nascita della loro bambina (Oga Magoga, Gangemi editore 2019 pagg. 502-504).
Una festa contadina
di Giuseppe Occhiato
Stando seduti tra i sacconi del grano, del miglio, e gli anditi con le cannizze della frutta, cilonari e zingaroti, sia perché si trovavano più raccolti e vicini fra loro, sia perché la chiarenza del vino già cominciava a sciogliere loro l’impaccio e la lingua, a scaldarli col fuoco del suo nervino di vigna seccagna e destra di sole, si sentirono più a proprio agio, più allegrizzati, più godiani. Presto, prima di calarsi una lampa di vino, si misero a improvvisare brindisi, a scambiarsi tra loro e a indirizzare alle femminelle presenti strambotti e saluti con la rima; e qualche volta anche le cilonare, arrossendo di confusione, tentavano una rispostella scherzosa, pure con la rima, quanto per dargli corda, solo per stare al gioco, ché, per quanto sciolte di lingua, non erano però brave in questo genere di cose. Dagli scherzi rimati passarono alle canzoni, e il desiderio che venne a tutti di aprire bocca per sfogarsi dei mali pensieri che da tanto gli stavano incasati negli archi dei petti si comunicò pure ai giovanottelli; e due o tre di essi uscirono dalla pinnata per tornare poco appresso con gli strumenti. Intanto la festa si era animata di più, l’allegria era aumentata, il tono della voce era alto e le risate lunghe e sonore; a forza di bere, già più di uno era brillo, per non dire che era impallato, qualcuno pure già tentennava il capo, e c’era chi di tanto in tanto cacciava grandi urla, così, senza un motivo se non di sfogo o di contentezza o anche di amarezza; le risate delle donne, sia delle ragazze che delle attempate, che mediante il vino avevano messo da parte ogni scornosità e non se ne stavano perciò contegnose come solitamente facevano. Anzi, si erano sfantasiate all’intutto del detto secondo cui su femmina che ride e su gallina che canta non tenere speranza. Spiccavano vivaci e squillanti in mezzo alla ribellione delle voci, dei rumori e delle risa che riempivano la pinnata; tutti erano contenti, tutti si sentivano leggeri, squietati, come liberati di un peso strapondoso, l’anima sognante e protesa verso orizzonti lontani e sconosciuti, il cuore pronto ai desideri e alle passioni più tenere. Specialmente le giovanottelle. Ce n’erano due o tre più parlantine e civettose delle altre, tipo mia cugina Annitta Melitano, o le sorelle Velia e Palma Corigliano, o Bradamante Jogà, o commare Melina Palmieri intesa della Macrina, che avevano labbra di seta carmosina e occhi cianciosi di magalcine, che rispondevano a tocco agli strambotti dei cilonari e ridevano mostrando bianche parature d’amméndola; belle e ligistrate, coi capelli impastati d’olio d’oliva e il vezzo dell’ingaffato incollato alla fronte, facevano incamare i giovanotti che si specchiavano alla lustrìa lampeggiante dei loro occhi canzirri e invitanti, e restavano come impigliati alle ragnatele di filaluna che uscivano dalle loro bocche di spapuline, tenere e schiattose al tempo stesso. Ai giovanottelli parve che quella cianciosità fosse tutta per loro, e imbracciarono gli strumenti come fossero spade d’amore. Mio cugino Vincenzo Melitano inteso di Fumagalli suonava la chitarra battente, i gemelli Michele e Orlando Mangone, intesi del Pungadoto, le chitarre francesi. Dopo le prime note scandite per prendere gli accordi d’avvio, in mezzo ai chitarristi fiorì subito il tempo veloce d’una pizzicarella, ed essi non fecero nulla per moderare la rapidità dei passaggi, tanto per saggiare la morbidezza dei polsi e l’agilità delle dita, e per caricarsi l’anima accordandola all’urgenza impetuosa degli strumenti. La pinnata risuonò tutta dell’allegria della musica; ma, imperiosamente, gli occhi maliosi delle ragazze reclamarono le loro canzoni poiché sentivano anch’esse la voglia di spassionarsi a quel modo, d’intrecciare le loro voci a quelle dei damoncelli. Sotto l’imperiosità della loro risguardatura, i suonatori chiesero da bere e poi si asciugarono le labbra; quindi pizzicarono le corde, facendole vibrare lungamente, e le accordarono con baldanza, e infine sistemarono bene gli strumenti tra le braccia quasi fossero, essi, marinarelli e le chitarre fossero lenzare con cui catturare quelle anguille d’argento; e con gli occhi immersi in quelli delle ragazze, agganciati al risolino tenero e pieno di promesse delle loro labbra, fecero guizzare polsi, palme e dita sulle corde, e subito mio cugino, che aveva la più appassionata e chiara voce di Contura, intonò la prima canzone. Il suo canto prese il volo e s’innalzò in un intreccio alto e isolato, fatto di ardore e di audacia, di campi e di stelle, di follia e di passione, si aprì a ventaglio verso la covertura, ripiegò a palmara sui cilonari e sugli zingaroti, e fece incurvare a tutti la testa sotto la sua sonorità rapinosa. Viatamente, a quella voce si annodarono le altre dei giovanotti, aperte, decise, sostenute. E quando parve giunto il momento, anche le scagnozzelle entrarono nel canto, e cantarono con certe voci solari, spalmate, argentine, perché fino da creaturelle erano state allenate a cantare in mezzo ai campi, o mietendo o vendemmiando, quando le loro canzoni s’inseguivano da una pendìna all’altra, e andavano echeggiando tra piano e piano, gioiosamente, come stormi di tortore in volo. Anche Dianora e Chicchina, sedute vicine come due colombelle, si unirono ai canti, si lasciarono cullare il cuore dalle melodie. Le voci dei festaioli facevano vacillare le fiammelle; le pareti della pinnata, le travi, i sacconi, i cannicci erano come investiti dalle canzoni, parevano avere un’anima anch’essi. I canti trapassavano le tavole della pinnata, irrompevano fuori, sui campi, dilagando nella notte, lambivano i dorsi rasati delle colline, scivolavano nei valloncelli; lasciarono sgomenti gli spiriti erranti, insalanirono i grilli nelle frasche e nei cespugli, fermarono il tempo e il cammino della luna. Ma non cantarono solo i giovanotti e le calandrelle. In quel rivolto frenetico di suoni, di canti, di zannelle e strambotti che s’incalzavano e rimbalzavano nella pinnata, i vecchi cilonari, che in prima in prima si erano accontentati di fischiare in sordina i motivi e le arie che sapevano a memoria, a un certo punto si trovarono pure loro infervorati, col senzio e i sensi accesi dal calore del vino, si sentirono guappi, pieni di ardire e baldanza, quasi sotto la cenere dei ricordi gli si fosse ridestata nei petti una scintilla della giovinezza perduta; si rividero come quand’erano ancora sciorteri, ganzicelli e spavaldi, come tanti cavalluzzi di parata, e si vergognarono a un tratto di essere stati finora vilacchioni, troppo persi di spirito e spagnosi di tutto, della vita, degli anni, della sorte, delle bombe, e di essere stati con la prica al mazzo per la minaccia di quell’Oga Magoga che gli passeggiava di sotto ai piedi, di essergli stati troppo sottomessi, incapaci di ingegniare un piano d’azione per sterrarlo di là. Infiammati da un ardore improvviso, si sperdettero delle paure e dei pericoli che ora gli parvero solo preoccupazioni da femminuzze, e si sentirono di colpo avventosi, in grado di subissare il mondo. E siccome l’acqua fa male e il vino fa cantare, alla fine, dato che i giovanottelli gli avevano tirato la volata, anche i vecchi cilonari si misero a cantare.

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