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Quel palazzo della ’ndrangheta che lo Stato non “voleva” riprendersi

La storia del bene confiscato agli Aquino e delle difficoltà del sindaco di Marina di Gioiosa Jonica per consegnarlo ai carabinieri. Le lettere di Vestito per sbloccare una pratica che pareva impos…

Pubblicato il: 23/02/2019 – 19:35
Quel palazzo della ’ndrangheta che lo Stato non “voleva” riprendersi

MARINA DI GIOIOSA JONICA C’è un passaggio, nella sentenza del Tar del Lazio che annulla lo scioglimento del consiglio comunale di Marina di Gioiosa Jonica, che trasforma la relazione della Prefettura in un boomerang. Sono poche righe: «Emerge dalla lettura degli atti della Commissione di indagine che il sindaco aveva posto in essere le attività necessarie per destinare alla locale stazione dell’Arma dei Carabinieri uno dei due immobili confiscati al proprietario del fondo, non ottenendo tuttavia un riscontro alla sua richiesta». La cattiva gestione dei beni confiscati è, spesso, motivo di “condanna” per i sindaci, specie in territori di confine, da parte delle commissioni di accesso antimafia.
In questo caso, però, gli atti sembrano dimostrare il contrario. E cioè che Domenico Vestito, primo cittadino del Comune della Locride, ha fatto di tutto per dare una destinazione al bene confiscato alla cosca Aquino, senza trovare sponde istituzionali. Insomma, non avrebbe ricevuto alcun aiuto dalla Prefettura di Reggio Calabria, ente che poi ha certificato le infiltrazioni mafiose che hanno portato allo scioglimento, infiltrazioni ritenute inesistenti dal Tar del Lazio.
CARABINIERI SENZA “CASA” Quella di Palazzo Aquino è una storia che si evolve in parallelo con le traversie affrontate negli ultimi anni per trovare una “casa” decente all’Arma dei carabinieri sul territorio di Marina di Gioiosa. Dopo uno sfratto subito nel 2009, l’allora sindaco del Comune Rocco Femia assegna ai carabinieri due stanze nell’ex stazione ferroviaria. La destinazione finale, però, dopo la confisca, è l’ex residenza del boss del paese. Quanto al timone dell’amministrazione arriva Domenico Vestito – è il 25 novembre 2013 – i buoni propositi sono ancora soltanto sulla carta. E pure di carta ce n’è poca, visto che l’iter è fermo a una bozza redatta dagli uffici del Comune. Mancano i fondi per dare ai carabinieri una sede dignitosa. Vestito scrive all’allora viceministro all’Interno Filippo Bubbico: accade dopo un incontro tra i due al Viminale. Il sindaco segnala la possibilità di alloggiare i militari in «un immobile di ingenti dimensioni, di sei piani, di migliaia di metri quadrati. Come spesso capita – continua – il bene c’è ma mancano i fondi necessari per realizzare l’opera, fondamentale per il futuro della nostra comunità». Non sarebbe soltanto un «presidio di legalità, ma un segno forte, concreto, tangibile della presenza dello Stato che si impone sulla criminalità organizzata. Là, dove nel recente passato trovavano rifugio latitanti, nel prossimo futuro potrebbe sorgere una caserma dei carabinieri».
PRIMI PASSI IN TEMPI RECORD Il profilo di Vestito non è (in quella fase) e non sarà mai il profilo di un sindaco che prende tempo, che indugia sulla necessità di assegnare il bene confiscato. È, al contrario, l’unico (o quasi) a fare pressioni. In quella fase, grazie all’attenzione del viceministro e dell’allora prefetto Claudio Sammartino (che il sindaco definisce «uomo di grande ascolto») al progetto vengono assegnati 800mila euro sul Pac Legalità.
I soldi continuano a essere un problema, perché non bastano. La Regione, però, riapre un bando per il finanziamento di edifici strategici: le pratiche sembrano sbloccarsi, il Comune si raccorda con l’Arma. Arriva il progetto, la Cittadella assegna velocemente il contributo necessario (1,2 milioni di euro per il miglioramento sismico) e nel febbraio 2016 c’è la sigla del protocollo tra il Comune e il ministero delle Infrastrutture. Tra riunioni del consiglio comunale e pareri positivi da parte dei vertici dei carabinieri, Marina di Gioiosa Jonica vede avvicinarsi il momento simbolico in cui il palazzo del clan diventerà un presidio dello Stato.
STOP Dalla fine del 2016, però, sorgono ostacoli su ostacoli. Con il cambio al vertice – a Sammartino succede Michele di Bari – muta l’approccio della Prefettura. Il sindaco scrive spesso per segnalare che il tempo stringe. Il 21 dicembre 2016 i toni virano verso la rassegnazione: «Spiace constatare che trascorrono i mesi senza che l’opera inizi a vedere la luce. Questo Comune – segnala Vestito alla Prefettura – ha dei tempi precisi, dettati dal finanziamento regionale, che già sono stati sforati. Avremmo dovuto, infatti presentare alla Regione l’aggiudicazione provvisoria dei lavori già lo scorso mese di aprile». La chiosa è allarmata: «Si sta concretizzando il rischio di perdere il finanziamento, circostanza che rappresenterebbe un danno non quantificabile sotto diversi profili». Ma passano due mesi e non accade nulla. Il 27 febbraio parte una nuova lettera nella quale Vestito chiede un incontro urgente a di Bari: parla di «un danno irreparabile», cioè la revoca del finanziamento qualora l’iter non riprenda il proprio cammino. Conformità urbanistica, solleciti, progetti, chiarimenti: il sindaco scrive ma nulla si muove.
Il 17 agosto – dopo una riunione arrivata a valle di parecchie richieste – si presenta la necessità di sbloccare il rilascio di un’autorizzazione da parte dei Beni culturali. Il Comune si attiva e ci riesce in meno di 20 giorni. Tutto a posto? Neanche per idea. Il 9 ottobre Vestito è costretto a scrivere ancora: «Si segnala che, ad oggi, la vicenda risulta avere subìto una nuova interruzione».
NESSUN CONTROLLO In mezzo – anche sul piano temporale – a tante carte, c’è anche un passaggio inquietante. Non solo Palazzo Aquino è “abbandonato” dalla burocrazia, ma è pure privo di difese. Lo registrano i vigili urbani di Marina di Gioiosa nell’aprile 2017. Su richiesta del “solito” sindaco – che a quel punto pare l’unico a interessarsi della questione – vanno a controllare le condizioni di sicurezza del bene confiscato. E rilevano che «gli accessi principali» sono «non solo aperti ma addirittura spalancati». Sono costretti, di conseguenza, a chiedere l’intervento di due operai del Comune per abbassare, «per quanto possibile, due serrande aperte del piano terra e richiudere le due porte d’ingresso». Seguono 26 foto che non sono propriamente un inno all’efficienza dello Stato. Eppure, in questa storia paradossale di silenzi e inerzie, l’onta dello scioglimento ricade sul consiglio comunale. E sul sindaco: l’unico che voleva davvero consegnare ai carabinieri il simbolo del potere mafioso.

Pablo Petrasso
p.petrasso@corrierecal.it

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