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«Il Reddito ha un’architettura fragile»

di Antonio Viscomi*

Pubblicato il: 18/03/2019 – 18:29
«Il Reddito ha un’architettura fragile»

Pubblichiamo l’intervento del deputato del Pd Antonio Viscomi in aula in sede di discussione generale sul decretone reddito e Quota100.
Molti anni fa, in una ricerca di sociologia giuridica, fu formulato il teorema della c.d. “copertura amministrativa delle leggi”. Secondo questo teorema, l’introduzione da parte di una norma di legge di nuove funzioni amministrative, non accompagnata da una puntuale definizione e da un sostanziale rafforzamento dei sistemi burocratici chiamati a darne attuazione, rischia di produrre effetti perversi consistenti, per un verso, nella impossibilità di portare a compimento le funzioni assegnate dalla nuova legge e, per altro verso, nella perdita di efficienza e di efficacia delle funzioni già svolte sulla base delle vecchie leggi.
Un teorema di buon senso, dunque, forse anche al limite dell’ovvio, ma che richiama l’attenzione sulla distanza che può intercorrere tra politica e politiche, tra indirizzo e gestione, e in fondo – se si vuole – tra parole, spesso ormai solo slogan suggestivi, e fatti concreti.
Tuttavia, se analizzato nella prospettiva di questo teorema, a me pare che il decreto, anzi: il decretone, come piace chiamarlo alla maggioranza governativa, violi in modo evidente i criteri fondamentali di una buona legge, esponendosi al rischio di non mantenere ciò che promette e quindi di risolversi in pura narrazione comunicativa.
Sia chiaro: non si tratta del rispetto di canoni formali di legiferazione e neppure di una questione meramente quantitativa di risorse disponibili, da risolvere mediante un incremento delle assunzione di personale dedicato, ma piuttosto – come abbiamo più volte ripetuto inascoltati in Commissione – di una confusione concettuale che invalida la stessa architettura istituzionale del sistema Reddito di cittadinanza.
In verità, a leggere bene il decretone, sembra di trovarsi di fronte ad uno di quei quadri il cui disegno si comprende – con sufficiente facilità – quando si guarda da lontano ma poi evapora velocemente quanto più ci si avvicina alla tela. E così è anche per quel sistema, costantemente alla ricerca di un equilibrio tra dimensione familiare e situazione individuale, tra politiche proattive e istanze repressive, tra competenze amministrative da distribuire e competenze professionali da riscoprire, tra perdurante mitologia delle piattaforme digitali e dei sistemi informativi che tutto risolvono e la drammatica realtà della frammentazione amministrativa e delle critiche condizioni organizzative delle agenzie chiamate ad operare sulle stesse piattaforme.
Emblematico a quest’ultimo proposito è l’art. 6, comma 7: dovendo individuare i soggetti chiamati a svolgere le attività connesse alle piattaforme digitali per l’attivazione e la gestione dei patti e cioè delle stesse politiche di attivazione, l’articolo citato ricorda esplicitamente Inps, Ministero del Lavoro (con i suoi enti controllati, vigilati e in house), Anpal, centri per l’impiego e comuni, ma conclude poi con un rinvio oltremodo generico alle “altre amministrazioni interessate”. Verrebbe da dire: ma come, state scrivendo una legge che considerate il cuore del vostro programma di governo e non avete nemmeno il quadro completo delle amministrazioni che saranno chiamate a darne attuazione?
Ovviamente, la questione non è avere un elenco nominativo ma acquisire piuttosto completa chiarezza su chi fa cosa, quando, come, dove e perché nell’ambito di un sistema amministrativo multilivello, costituzionalmente presidiato e condizionato, che si vuole far operare su piattaforma digitale comune. Che è poi da sempre, o almeno a partire dal “Sistema informativo lavoro”, introdotto nella seconda metà degli anni ‘90 dal c.d. “pacchetto Treu”, lo scoglio che ha portato al naufragio di ambiziosi interventi riformatori che per funzionare davvero richiederebbero una agenzia, un sistema ed una strategia univoca se non proprio unica.
A dire il vero, ho l’impressione che anche il Governo abbia dovuto velocemente imparare a proprie spese che in sistemi multilivello non si decide da soli e che il rispetto delle competenze reciproche, soprattutto se fondate nell’assetto costituzionale, è condizione inderogabile, se è vero come è vero che l’originario parere delle regioni è diventato ora accordo con le regioni, come deve essere nella prospettiva della leale collaborazione. Il fatto è che disegni riformatori ambiziosi, per risultare effettivi e non franare per contrarietà a Costituzione, devono radicarsi in condizioni minime di certezza nei rapporti istituzionali.
Ed oltremodo ambizioso è anche l’intervento di cui stiamo parlando: è sufficiente leggere l’art. 1, comma 1, del decreto – vera norma manifesto delle intenzioni del legislatore – per rendersene conto. Il sistema RdC è qui considerato come “misura fondamentale di politica attiva del lavoro”, posta a “garanzia del diritto al lavoro”, nonché “misura fondamentale” “di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all’esclusione sociale” nonché ancora “misura fondamentale” “diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura” e tutto questo intende assicurare “attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”.
A ben vedere, dunque, l’incerta architettura istituzionale che segna il sistema RdC non è tratto occasionale e facilmente emendabile ma trova radice profonda nella stessa incertezza concettuale di una misura alla quale si affidano, anzi sulla quale si riversano confusamente funzioni plurime e diversificate, quanto ad attori, competenze, vincoli, risorse, strategie e finalità ultime.
E questo il vero punto debole del sistema RdC, costretto geneticamente, strutturalmente e funzionalmente nel dilemma di fondo tra strumento di contrasto alla povertà e strumento di politica attiva del lavoro, tra competenze dei servizi sociali e dei comuni e competenze delle agenzie che governano il mercato del lavoro, tra vincoli reddituali di carattere familiari e politiche di attivazione necessariamente individuali.
E che sia questo un problema serio, è confermato dagli emendamenti della maggioranza in Commissione che hanno sostanzialmente modificato il testo dell’art. 10 ed introdotto il comma 10-bis nel corpo dell’art. 11.
Con quest’ultimo il governo ha istituito la più tradizionale “cabina di regia come organismo di confronto permanente tra i diversi livelli di governo”; previsione, questa, che conferma ma non risolve i problemi di una governance multilivello, condizionata – come ricordavo prima – da previsioni costituzionali molto chiare in ordine alla distribuzione delle competenze tra tutti gli attori istituzionali interessati.
L’art. 10, invece, inizialmente dedicato al “monitoraggio del RdC”, è ora rubricato “coordinamento, monitoraggio e valutazione del RdC”, e affida la relativa responsabilità al Ministero del Lavoro, anche per quanto attiene alla valutazione.
Qui però è necessario parlare con molta chiarezza. La valutazione non è affidata, come normalmente accade nell’universo mondo, ad agenzie indipendenti, trasparenti, di provata competenza in materia di valutazione delle politiche pubbliche ma ad un “progetto di ricerca” – per la verità più usuale ad un dipartimento universitario che ad un ministero – approvato da un comitato scientifico, a sua volta istituito e presieduto dal Ministero del lavoro, che così assume, sfidando anche il semplice buon senso, la duplice contestuale veste di controllore e controllato.
E addirittura ancora più incredibile è che sia lo stesso decreto a dettare addirittura la metodologia di ricerca da utilizzare, quando invece questa non può che rientrare, con tutta evidenza, nella libera scelta dell’agenzia di valutazione, proprio perché questa stessa libertà è condizione essenziale per assicurare l’indipendenza di giudizio, la terzietà e l’imparzialità dell’attività di valutazione.
Insomma che il Ministro del Lavoro possa nominare e presiedere il Comitato Scientifico chiamato a sua volta a validare il progetto di ricerca ad hoc destinato a valutare l’efficacia e l’efficienza del sistema RdC, di cui lo stesso Ministro del lavoro è al contempo promotore e coordinatore crea un cortocircuito che viola qualunque fondamentale parametro di imparzialità e di indipendenza di una valutazione presa sul serio. Insomma, è stato creato il più classico e scolastico conflitto di interessi.
Proverò ora ad evidenziare, con un paio di esempio di maggior dettaglio tra i tanti possibili, alcune delle contraddizioni che segnano il sistema RdC derivanti proprio dall’irrisolta confusione originaria di funzioni, attori, competenze, vincoli, risorse, strategie e finalità.
La prima è relativa alla tensione che è stata introdotta tra la dimensione familiare e la sfera individuale, e che pure sta portando a quella sorta di fuga dalla famiglia anagrafica segnalata ripetutamente, in questi ultimi giorni, dai mass-media.
La dimensione familiare definisce il perimetro per stabilire l’esistenza o meno delle condizioni di accesso al beneficio economico del RdC nonché il relativo importo globale. Lo dice molto chiaramente l’art. 3 quando individua le due componenti del beneficio economico e qualifica entrambe come “integrazione del reddito familiare” o del “nucleo familiare”. Lo conferma l’art. 2 quando prevede che nessun componente del nucleo familiare possa essere intestatario di beni durevoli, autoveicoli, navi o imbarcazioni da diporto.
Al contempo, però, gli obblighi conseguenti all’inserimento del nucleo familiare nel sistema RdC assumono poi una dimensione individuale, tant’è che il beneficio economico è suddiviso per ogni singolo componente (non si comprende se sempre in parti uguali, come previsto esplicitamente per la sola pensione di cittadinanza, o no) e l’erogazione è condizionata dalla dichiarazione di immediata disponibilità e dalla adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo. Vieppiù, l’art. 4, comma 6, impone al richiedente che non sia sottoposto agli obblighi connessi al patto per il lavoro o per l’inclusione non solo di comunicare al centro per l’impiego le proprie condizioni di esonero al centro per l’impiego ma anche di “individuare” un componente del nucleo che lo sostituisca nel primo incontro con i servizi, stabilendo così una sorta di intercambiabilità dei componenti del nucleo familiare.
Cosa succede se un singolo componente non effettua la predetta dichiarazione o non sottoscrive il patto? L’art. 7 comma 5 dispone la decadenza dal RdC. E sembrerebbe la decadenza dal beneficio proprio per l’intero nucleo, atteso che altrove, e in particolare nell’art. 2, comma 3, è previsto chiaramente che le dimissioni volontarie privano della quota parte del RdC il solo componente del nucleo familiare disoccupato.
Insomma, le colpe di uno ricadono tendenzialmente su tutti i componenti del nucleo familiare.
Non è solo una sorta di inusitata responsabilità oggettiva a preoccupare, quanto piuttosto il fatto che si trascura di considerare che il più delle volte le famiglie in condizioni di povertà estrema rappresentano ambienti ideali per l’insorgere di dinamiche conflittuali in cui la responsabilità reciproca è oscurata dal disagio di una difficile quotidianità. Non è solo, e neppure tanto, un problema giuridico, quanto piuttosto un serio problema di contemperamento tra libertà del singolo componente di effettuare le proprie scelte e responsabilità dello stesso componente nei confronti del nucleo familiare.
Un secondo esempio che vorrei segnalare per evidenziare la tensione interna al sistema RdC, derivante da una non chiara distinzione di ruoli e di competenze, è disciplinato dall’art. 4, comma 5-quater, introdotto in commissione con emendamento delle relatrici.
Il punto in questione è il seguente. L’interfaccia primaria del richiedente o del beneficiario del reddito è il centro per l’impiego, la cui funzione propria dovrebbe essere quella di agevolare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Dico dovrebbe, perché come è ben noto, non tutti i centri per l’impiego riescono a svolgere questa funzione, per ragioni di varia natura che qui non è il caso di approfondire ma che però non sembra neppure aver approfondito chi ha redatto la norma.
Da un punto di vista generale è quindi del tutto evidente che il decreto ritiene necessario aggredire la condizione di povertà anzitutto come condizione creata dall’assenza di lavoro e dunque, appunto, come condizione individuale e non già come situazione di disagio familiare, relazionale, personale e professionale.
Dal punto di vista particolare, non è però da escludere che proprio le condizioni di disagio siano tali da rendere impossibile, se non inutile, la stessa ricerca di un lavoro.
Per questo, il comma 5-quater prevede una sorta di transizione guidata dai servizi per l’impiego ai servizi sociali, articolata in tre momenti: nel primo, l’operatore del centro per l’impiego ravvisa la presenza nel nucleo familiare di particolari criticità tali da rendere difficoltoso l’avvio di un percorso di inserimento al lavoro; nel secondo, per il tramite della piattaforma digitale, lo stesso operatore invia il richiedente ai servizi competenti per il contrasto della povertà dei comuni, motivando le ragioni che l’hanno a ciò determinato; nel terzo, i servizi comunali di contrasto alla povertà si coordinano a livello di ambito territoriale per la valutazione multidimensionale e per adottare le misure conseguenti.
Sembrerebbe tutto caratterizzato da una ordinata simmetria. Ma così non è, perché competenze amministrative e competenze professionali dell’operatore del centro per l’impiego non sono istituzionalmente rivolte a verificare le condizioni di criticità familiari, tanto da poter motivare il rinvio ai servizi competenti per il contrasto alla povertà.
Ribadisco, la legge richiede esplicitamente all’operatore del centro per l’impiego di essere capace di ravvisare nel nucleo familiare dell’interessato la presenza di particolari criticità che rendono difficoltoso l’avvio di un percorso di inserimento al lavoro. E il punto è di così estrema delicatezza, anche a motivo dello stigma, percepito come socialmente o soggettivamente negativo, che potrebbe derivare dal rinvio del disoccupato dal centro per l’impiego ai servizi sociali che non a caso si prevede di definire in sede di conferenza unificata i principi e i criteri generali da adottare in sede di valutazione per l’identificazione delle condizioni di particolari criticità considerate dal comma 5-quater. Ma è soluzione questa più attenta ai profili formali di riparto delle competenze amministrative che di adeguamento delle competenze professionali degli operatori.
Non solo di nuove assunzioni necessitano i centri per l’impiego, ma di una più significativa revisione dei profili professionali in coerenza con l’incremento di funzioni determinato dalla legge. È questo il punto di snodo reale: tutte le politiche di attivazione presuppongono la presa in carico della singola situazione e per questo richiedono operatori professionali altamente specializzati. Non la disoccupazione ma il disoccupato, non la povertà ma il povero, e il disoccupato o il povero considerato nella concreta situazione storica: questo è l’orizzonte operativo delle politiche di attivazione; qualcuno lo dica, per favore, a chi ritiene – con molta astrattezza – che la questione importante sia solo quella di assumere personale e non la concreta qualificazione professionale del personale assunto, per la quale serve a poco ricorrere alle suggestioni della lingua inglese.
Insomma, avviandomi a concludere, credo risulti del tutto evidente la radicale ambiguità dell’architettura istituzionale del sistema RdC: lo abbiamo visto per quanto riguarda i rapporti tra nucleo familiare e singolo individuo, lo abbiamo visto ancora per quanto riguarda i rapporti tra servizi per il lavoro e servizi sociali, quelli di competenza delle regioni, questi dei comuni. Si tratta di profili essenziali per consentire il buon funzionamento di una ambiziosa misura che pretende di essere al contempo strumento fondamentale “di politica attiva del lavoro”, “di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all’esclusione sociale”, nonché ancora “misura fondamentale” “diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura”.
Ma per essere veramente tale e assicurare i risultati promessi, la misura fondamentale in questione avrebbe necessità di essere sostenuta da una visione chiara dell’ordinamento come sistema, da una realistica valutazione dei sistemi amministrativi, da una profonda consapevolezza della complessità delle situazioni reali. Purtroppo non lo è.
L’abbiamo ripetutamente detto in Commissione, continueremo a dirlo in quest’aula; inascoltati prima e forse inascoltati anche ora.

*deputato del Partito democratico

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