Il Paese è di fronte ad una svolta epocale dalla quale dipende il futuro delle regioni meridionali. Se il Parlamento dovesse decidere di concedere l’autonomia differenziata alla Lombardia, al Veneto e all’Emilia Romagna, per quelle del Sud sarebbe la condanna alla miseria. Quella civile, invece, toccherebbe al Parlamento che si renderebbe responsabile della vanificazione dell’unità nazionale per la quale tante vite umane, molte di esse di meridionali, furono sacrificate per la causa. L’Italia si avvierebbe a grandi passi per ritornare a quell’agglomerato di piccoli “stati” com’era fino al 1861.
In questo progetto subdolo c’è l’impronta di un uomo al quale è permesso, senza colpo ferire, di predicare male e di razzolare ancora peggio; un uomo che, con perfidia, sta portando il Paese sull’orlo del precipizio, tentando di annientare lo stato di diritto pur di attuare il progetto sul quale nacque e si radicò la Lega Nord: la secessione, che Bossi sbandierava come un feticcio nelle adunate che organizzava sul “sacro prato” di Pontida svuotando le ampolle d’acqua del Po.
Il Lombardo-veneto, a trazione leghista, paradossalmente si serve proprio della Costituzione repubblicana per riaffermare l’idea di autonomia delle regioni. L’Emilia Romagna è anch’essa della partita ma si diversifica rispetto alla Lega per le richieste più soft; ma alla fine sempre di quello si tratta.
Per contrastarli bisognerà capire come si porrà l’alleato di governo: se i 5 Stelle avranno la forza di costringere Salvini a rinunciare alla bocca di fuoco piazzata dalla sua parte politica contro il Mezzogiorno, o se saranno complici facendo i distratti.
Le tre Regioni hanno trovato la chiave nelle pieghe della Carta Costituzionale, nella norma che prevede “l’autonomia differenziata”. Dopo aver sottoscritto gli accordi preliminari con il Governo a febbraio 2018, il negoziato è proseguito ampliando il quadro delle materie da trasferire rispetto a quelle originariamente previste. Una di esse consente di trattenere in toto le tasse, senza più trasferire a Roma la parte prevista per essere distribuita alle regioni più bisognose. Si tratta di una sorta di equilibrio sociale. È bene ricordare, intanto, che la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna insieme producono il 40 per cento del Prodotto interno lordo del Paese, cioè quasi la metà del gettito nazionale.
Perché, dunque, opporsi all’iniziativa? È vero che si tratta di denari loro, ma è anche vero che in Italia esiste una grave disparità (mai affrontata in modo radicale dai governi) tra le regioni del Nord e quelle del Sud; e non solo, ma anche perché l’autonomia vanificherebbe il principio di solidarietà nazionale. Verrebbe così data dignità all’ egoismo secondo cui chi più ha più può avere e chi è povero può morire di fame. Lo Stato, in situazioni del genere, ha il dovere di intervenire e di riequilibrare le sorti.
I correttivi esistono a cominciare dal principio della sussidiarietà o della funzione suppletiva, che significa salvaguardare il concetto del “retto ordine” che subentra quando una parte della popolazione subisce un danno da un provvedimento che, seppure legittimo, non si può impedire. Lo Stato ha il dovere di intervenire applicando la regola della sussidiarietà che afferma una concezione globale dell’uomo.
Norme peraltro contemplate dal Diritto Comunitario che adotta appunto la sussidiarietà: l’equità tra le regioni riguardo allo spirito unitario e autonomistico.
Ma, a parte il diritto, sarebbe sufficiente che sia le Regioni che invocano l’autonomia differenziata, sia il Governo e il Parlamento si interrogassero su come sia stato possibile per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna raggiungere i livelli di ricchezza di cui dispongono; di quali aiuti statali hanno potuto usufruire e perché il Sud, invece, è stato costretto all’assistenzialismo per sopravvivere; perché al Mezzogiorno sono state negate le stesse attenzioni per tentare di sviluppare le sue risorse. Settori come Il Turismo, l’Agricoltura, l’Industria di trasformazione ma anche quella estrattiva avrebbero potuto dare risposte concrete al benessere di queste regioni. Sarebbe stato semplicemente doveroso che i governi che si sono succeduti dall’Unità ad oggi avessero agito con imparzialità: uguali doveri ma anche uguali diritti! Si preferì, invece, continuare ad essere parziali mantenendo lo stesso sistema in essere nel periodo pre Unità, quando l’assolutismo della monarchia favoriva il dominio delle vecchie aristocrazie terriere a discapito dell’imprenditoria privata. Una condizione che si è perpetuata anche dopo l’agognata Repubblica. Il senso di marcia fu sempre quello.
Non un caso che il Piemonte è fuori dal progetto secessionista della Lega. Probabilmente il mancato ricorso all’autonomia ha attinenza con la storia: quando il conte Camillo Benso di Cavour, intuita la complessità della situazione, ebbe l’idea di collegare la “questione italiana” al programma di “unità nazionale” che già allora prevedeva un progetto di riforme sociali. L’opposto del programma della Lega di Salvini che, progetto alla mano, rappresenta una vera dichiarazione di guerra all’unità nazionale, alla sovranità di ciascun cittadino rispetto al patrimonio nazionale.
Importante è non dimenticare che la secessione dei ricchi rappresenta anche un grave pericolo per il patrimonio culturale dell’Italia; essa, pur racchiudendo in sé un marcato ostracismo all’unità nazionale, deve fare i conti con una parte di classe politica che intende l’unità del Paese superata se non, addirittura, inutile e guarda al “sovranismo” come mezzo antitetico alla democrazia. Forse è opportuno essere vigili!
*Giornalista
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